Archivi tag: Enzo Tortora

Morto Ciro Cirillo

Di Valter Vecellio

Il nome di Ciro Cirillo, ormai, dice qualcosa forse solo a chi quegli anni faceva il mestiere di cronista; per gli altri occorre uno sforzo di memoria: si parla di fatti accaduti quasi quarant’anni fa. Sono le 21,45 del 27 aprile del 1981 quando Cirillo, assessore regionale campano, esponente di punta di quella Democrazia Cristiana legata a filo doppio ad Antonio Gava, viene sequestrato a Torre del Greco da un commando di cinque appartenenti alle Brigate Rosse capeggiati da Giovanni Senzani. Cirillo viene poi rilasciato all’alba del 24 luglio 1981: un sequestro che dura 89 giorni. Per Cirillo, a differenza di Aldo Moro, viene avviata e portata a termine una vera e propria trattativa con i terroristi. Una trattativa che coinvolge politici, servizi segreti, rappresentanti delle istituzioni.

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Rifroma della Giustizia. Francesca Scopelliti, la compagna di Enzo Tortora, scrive ai consiglieri regionali capigruppo e al Presidente del Cons. Regionale Calabria Nicola Irto

Candido (Partito Radicale): assieme al Garante per i detenuti, con nostro digiuno a staffetta sosteniamo anche la richiesta dell’ex compagna di Enzo Tortora, nostra compagna Radicale.

<<La lettera di Francesca Scopelliti, inviata ai capigruppo calabresi da Lucio Bertè, militante del Partito Radicale ed ex consigliere regionale della Lombardia, chiede ai consiglieri regionali di “indicare al Governo nazionale una riflessione sul mondo del carcere e una rivisitazione ‘volteriana’ degli istituti di pena”.

Una riflessione “su un tema” che Francesca Scopelliti ricorda di aver “condiviso con Enzo Tortora sia quando, innocente, fu ospite in carcere per ben sette mesi, sia quando, da Presidente del Partito Radicale, se ne occupò chiedendo insieme a Marco Pannella e ai compagni radicali  quelle riforme necessarie per fare degli istituti di pena un luogo di recupero del reo e non – come invece è oggi – un luogo di violazione dei diritti, anche dei diritti del colpevole”. Continua la lettura di Rifroma della Giustizia. Francesca Scopelliti, la compagna di Enzo Tortora, scrive ai consiglieri regionali capigruppo e al Presidente del Cons. Regionale Calabria Nicola Irto

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GIUSTIZIA: L’OTTIMO CONSIGLIO DI BENEDETTO CROCE (NEL 1911): STATE LONTANI DAI TRIBUNALI

Di Valter Vecellio

La lettera  è di Benedetto Croce, indirizzata a Giovanni Amendola la data è del 1 giugno1911. Croce racconta di una disavventura giudiziaria capitata a Giuseppe Prezzolini. Si chiude con un consiglio: stare quanto più possibile lontano dai tribunali. Croce non è un estremista anarcoide; è un liberale con il senso dello Stato e delle istituzioni; e tuttavia, quando si tratta dei tribunali, consiglia prudenza e cautela. Un po’ come per la superstizione: Croce non crede alla jella: “Ma prendo le mie precauzioni”.
A Croce, al suo “consiglio”, alle sue “precauzioni”, mi viene da pensare nel leggere i risultati di un sondaggio demoscopico secondo le quali un italiano su due ha poca o nessuna fiducia nei confronti dei magistrati e del modo in cui applicano le leggi di cui, purtroppo, questo paese è infarcito. Confesso che comprendo molto bene questo italiano su due timoroso; e fatico a comprendere come, al contrario, ci sia un italiano su due che questo timore non lo coltivi.
Lui lo dice con il sorriso tra le labbra; io lo penso seriamente: sono d’accordo con il presidente dell’Associazione Nazionale dei Magistrati Piercamillo Davigo: “Pensavo peggio, temevo stessimo a zero”.

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5 Referendum contro il sopruso cementato dal silenzio

di Giuseppe Candido

In questi giorni se n’è parlato a seguito delle dichiarazioni di Berlusconi al comizio di Brescia. Ma anche oggi, proprio come trent’anni fa nel momento del suo arresto, il “caso Tortora” dovrebbe essere, soprattutto, “simbolo e bandiera di un riscatto che non può più tardare”. Domani, martedì 28 maggio 2013, a venticinque anni dalla morte e trenta dall’arresto di Enzo Tortora, una delegazione del “Comitato promotore dei referendum” presieduto da Marco Pannella con il coinvolgimento formale anche della “Lista Pannella”, depositerà presso la Corte di Cassazione altri cinque quesiti referendari “per la giustizia giusta”: Responsabilità civile dei magistrati, separazione delle carriere, custodia cautelare, incarichi extragiudiziali, progressione delle carriere. (altri 5 sono stati presentati nei giorni scorsi su legalizzazione droghe, immigrazione clandestina, 8×1000, finanziamento partiti e divorzio breve)

Come scrisse lo stesso presentatore nell’articolo del 14 marzo del 1984 titolato “Occorreva un Tortora”, anche oggi, quotidianamente, “sentiamo ogni giorno testimonianze agghiaccianti sui soprusi, le infamie, le illegalità che quotidianamente vengono compiute”. E anche oggi, come venticinque anni fa per colpa di una politica impegnata in tutt’altre riforme ad personam, “l’Italia è tutto un’immenso “Muro Lucano”, che”, scriveva Tortora, “eleggerei davvero a capitale di questa Repubblica fondata non più sul lavoro, ma sul sopruso, cementato nel silenzio”. Anche oggi il silenzio dei media che avvolge i nuclei di Shoah attivi presenti nelle carceri del nostro Paese è davvero assordante! Tortora aveva compreso, in quei giorni che da detenuto era candidato al Parlamento europeo, “come persino la verità, quando si tinge di parola “radicale”, diventi sospetta, non più vera, o meno di prima, e oggetto di attacchi velenosi, irresponsabili, abbietti”. Quant’attualità in quelle parole. “Sto attraversando l’intera programmazione di un’Italia incredibile e invivibile, che mai come in questo momento, proprio perché l’ho vista, e la vedo vivere, sento il bisogno, sento l’urgenza di contribuire a cambiare. Cambiare nel profondo, cambiare nelle sue strutture marcite e putrescenti: cambiarla non “contro”, ma per amore della democrazia”. E si domandava se, proprio a questa nostra Repubblica, “occorreva un uomo chiamato Tortora, esibito in catene come un trofeo di caccia, in un osceno carosello televisivo, per destare il Ministro Martinazzoli da un sonno lungo quanto quello di Aligi”. La Giustizia italiana e la sua appendice rappresentata da carceri sovraffollate in maniera inumana e degradante continuano a mostrasi vicende sempre più Kafkiane e dimenticate: “A fare il punto sul problema della giustizia in Italia, mi pare che il caso Tortora si configuri come esemplare”. Scriveva così Leonardo Sciascia aggiungendo, tanto per esser chiari, che usava “il caso Tortora” soltanto per “abbreviazione”. “Potrei anche dire: il caso di numerosi arrestati, insieme a Tortora perché omonimi, di persone indicate dai “pentiti” come camorristi – che mi pare caso, qualitativamente e quantitativamente, anche più grave. Voglio dire che non è soltanto quello della carcerazione preventiva il nodo che viene al pettine, ma anche quello dell’affidabilità conferita ai partiti e del mandato di cattura facile, dello strapotere della magistratura inquirente, del suo essere al riparo da responsabilità”. Ancora oggi ci sono ingiustizie che potrebbero essere vedute da chi queste le commette e anche oggi, come allora sosteneva lo scrittore di Racalmuto, “Un argine bisogna metterlo, un rimedio bisogna trovarlo: a fronte della giungla giudiziaria”. Anche oggi, come allora, il “1984 di Orwell può”, in questo nostro Stato che sembra aver smesso di essere Stato di Diritto, “assumere specie giudiziaria”. Ce ne sono non soltanto “i presentimenti” e “gli avvisi”: oggi ci sono anche le condanne europee della Corte dei Diritti dell’Uomo che mettono l’Italia in condizioni di essere tecnicamente criminale contro i suoi stessi cittadini. E, se non si pone rimedio, “questo Paese sarà veramente finito”. “Il caso Tortora” per Sciascia era allora “l’ennesima occasione per ribadire la gravità della situazione” in cui versava l’amministrazione della giustizia in Italia. “Il tutto”, scriveva Sciascia, “porta a riflettere sui giudici e sui loro errori: bisognerebbe far fare ad ogni magistrato, appena vinto il concorso, almeno tre giorni di carcere o, meno utopisticamente, “caricarli di responsabilità” (civile) senza togliergli l’indipendenza”. Se la politica non cambia, allora cambiamo noi. Ecco perché servono quei 5 referendum per una Giustizia Giusta: ancora oggi “c’è la manetta facile in un paese dove tutto è diventato facile, tranne l’onestà, tranne il carattere”.

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Saviano, Pannella e “l’uomo che presero al laccio come un animale”

Enzo Tortora

Roberto Saviano lo fa apposta nello scordare i RadicaliTortora, il partito antiproibizionista che non c’è. Li dimentica deliberatamente perché non si può neanche lontanamente pensare che lo scrittore non conosca i fatti. La settimana passata, nel parlare del “partito antiproibizionista che vorrebbe poter votare” aveva affermato che, purtroppo, quel partito in Italia non c’è dimenticando Pannella, Bonino e le loro disobbedienze civili.

Questa settimana lo rifà imperterrito: per sconsigliare a Berlusconi di accostarcisi parla di Enzo Tortora ricordando che, proprio come sostenuto dalla figlia del conduttore televisivo, quella sì che fu “un’altra storia”. Certo, un’altra storia che però, anche questa come il partito che Saviano voterebbe, s’incrocia e s’intreccia strettamente con quella del Partito Radicale. Secondo Roberto, ossimoro antitaliano di se stesso, “ci sono aspetti del nostro Paese che continuano a sfuggirci” e candidamente aggiunge di temere che, se ciò accade “la responsabilità” è anche di chi “ha smesso di scrivere la complessità”. “Una di quelle storie che tutti credono di conoscere ma che pochissimi hanno raccontato”. Vero, verissimo. Ma adesso pare che anche la semplicità venga cancellata dallo scrittore: i Radicali furono gli unici che offrirono a Enzo Tortora una bandiera per poter lottare per una Giustizia giusta. Saviano ricorda la storia, le tappe della vicenda, cita il referendum di striscio ma dimentica di dire che Enzo Tortora, l’uomo “che presero al laccio come un animale”, proprio per difendersi nel processo e non dal processo si dimise da eurodeputato quale era stato eletto con il Partito Radicale.

Ma la storia, per capirla veramente, è necessari rileggerla dagli stessi che la scrissero. La storia vera di Enzo Tortora, se la si vuole conoscere e ricordare davvero è sufficiente riprendere i suoi scritti e i suoi dialoghi tutti rigorosamente archiviati dal sito di Radio Radicale, l’università popolare italiana, e su quello di Radicali.it.

Come avvenne la candidatura di Enzo Tortora?

“La telefonata di Marco Pannella” – scriveva Enzo Tortora – “mi arrivò in una sera, anzi in una notte di grande, profondissima disperazione. Da un anno vivo un tormento insopportabile. Una pena che è comune a molti, una tragedia civile che avrei ritenuto impossibile. Addirittura impensabile in un Paese che si ostina, chissà perché, a ritenersi ancora fondato sul diritto. L’uomo che presero al laccio, come un animale, il 17 giugno del 1983 spezzandogli barbaramente la vita, la salute, il lavoro, l’onore, era un uomo molto diverso da quello che oggi scrive queste parole. Ho attraversato tutto il pianeta dell’infamia legale. Ho visto e sentito sulla carne cose che avrei ritenuto assurde e indegne dell’occidente. Forse è bene che sia accaduto questo. Forse è bene, e non per me ma per gli altri, che l’osceno sipario si sia alzato su un fondale ancora più ributtante. Perché quella che ho vissuto e che vive è certo l’Italia vera, autentica. Crudelmente e crudamente reale. Così lontana dall’oleografia ufficiale. Dai paroloni e dai compiaciuti gargarismi di una classe politica che si nutre e ci nutre di chiacchiere, di vuoti propositi, mai completati in un’azione concreta. Lo ripeto, sono il testimone martoriato, e non il solo, di un’Italia medioevale e selvaggia. Giunta ormai a livelli di degrado giuridico e civile da ispirare orrore. La telefonata di Marco Pannella giunse inattesa e inaspettata a un uomo che non aspettava più niente. A un uomo che a gennaio aveva già detto di no una volta perché credeva che qualcosa sarebbe successo. Credeva che una buona volta, una forza politica, avrebbe detto no a questa infamia. Mi fidavo ancora ingenuamente e solidamente di ciò che mi avevano insegnato a scuola: l’Italia è democratica, l’Italia è Europa, l’Italia non pratica più la tortura, non ha la pena di morte, rispetta i diritti inviolabili. Parola che muove al riso: io sono ormai in grado di leggere la Costituzione come un’amara utopia. Ora so che l’Italia, invece, è totalmente immersa per volontà di alcuni uomini e per l’ignavia di un’intera classe politica immersa nella cultura dell’indifferenza e del disprezzo. Fu a questo punto che giunse da Trieste la telefonata di Marco. Non consolava, offriva. Non faceva voti, non emetteva sospiri ipocriti, non inviava inutili telegrammi di solidarietà. Non prometteva tavole rotonde sulle radici quadrate; non auspicava, non indiceva convegni e non prometteva soavi commissioni d’inchiesta. No, Pannella mi offriva un’arma altissima e una bandiera. Usale, mi diceva. “Usale per gli altri, per tutti”. Era ciò che pensavo. Il mio tormento e il mio dolore, la mia rabbia e la mia pena non debbono, non possono non “servire”. Servire agli altri, servire al Paese, servire a quest’Italia beffata, illusa, raggirata, irriconoscibile e ferita. Queste sono parole scritte da Enzo Tortora nel marzo del 1984 in articolo titolato “Quando la Costituzione è un’utopia”. Vecchie di trent’anni ma, nel rileggerle oggi, ognuno di noi sente quanto attuali siano queste parole. Da quel 1984 poco è cambiato. Chi conosce la realtà delle carceri italiane e della giustizia lo sa bene. Anzi, forse qualcosa è anche peggiorata. Perché quando si tradisce un referendum come quello sulla responsabilità civile dei magistrati, non si rimane allo stesso livello. Si torna indietro, si peggiora. La drammatica condizione delle carceri italiane è figlia anche di quella violenza con cui si tradì un voto popolare. “È ripugnante vedere la parola politica” – scriveva Enzo Tortora – “e politica in senso furbastro, da maneggioni o portaborse del potere, inserirsi adesso nel giudizio su quella mia scelta che qualcuno continua a considerare scandalosa. Sono, lo premetto, solo punture di pidocchi dopo le coltellate vere, profonde, che la cosiddetta Giustizia mi ha sferrato. Ma qui i pidocchi contano. Vorrei dire che sinora solo i pidocchi hanno contato. Sbarrai gli occhi, non so se più nauseato o indignato, quando lessi che un autorevole capo tribù democristiano scriveva: ”Mi auguro che Tortora riesca a dimostrare la propria innocenza”, rivelando che la più mostruosa inversione del concetto di onere della prova era ormai avvenuta nella coscienza di troppa gente. Perché qui ormai è addirittura l’innocenza che con fatica, strazio e anni di tormento, deve giungere a dimostrare di essere tale. Non sono gli altri che, con le prove e non con calunnie, devono in tempi rapidi provare la colpevolezza del cittadino. Qualcosa di ignobile è avvenuto nella nostra legislazione. Sta avvenendo sotto gli occhi di tutti, e alla barbarie non si può più dare il nome decentemente di diritto. Rifarei la scelta radicale fra un minuto. La rifarei ogni minuto. Sono profondamente convinto che oggi, in Italia, solo questa sparuta pattuglia di profeti disarmati, vede chiaro, vede lontano, e osa chiamare le cose con il loro nome.” Un “difetto” insopportabile per i media e che Pannella continua ad avere: dire la verità e chiamare le cose con il proprio nome. È così quando parla di uno Stato, quello italiano, tecnicamente e non moralmente criminale perché pluricondannato dalla Cedu per violazione dei diritti umani e per l’eccessiva durata dei processi. Un Paese dove la Giustizia è la vera emergenza senza la quale neanche il lavoro può trovare diritto e diritti. Con quell’ostinazione meravigliosa che è solo dei forti e degli uomini con la coscienza netta, Pannella “rilancia” e “provoca” sull’ingiustizia italiota ancora oggi. Come affidava allora a Tortora quella “bandiera” oggi Pannella la affida ai suoi compagni e ai detenuti nelle carceri che spesso coincidono e con cui sciopera. Affida quella bandiera alla loro coscienza, al loro cuore, perché tra il resto dell’ignavia lì c’è chi comprende l’urgenza delle urgenze. Allora Tortora sapeva e lo scriveva: “So che significa. L’ho sempre saputo. So che dietro di me, a guardare con speranza, ci sono uomini, migliaia di uomini e di donne che soffrono e che penano per una situazione, dico quella della carcerazione preventiva, che occorre cancellare dalla storia come si cancella una insopportabile vergogna”. Sarebbe una sorpresa benedetta se un Governo riuscisse a fare una riforma della Giustizia. Perché anche oggi, “in un Paese in cui l’altra faccia è invece la pigrizia e la noia, in un Paese in cui il cinismo e il malaffare istituzionalizzato sono pratica quotidiana, allora la parola “sorpresa” è benedetta”.

Ma c’era un’altra cosa – che Tortora sottolineava e che Saviano pure dimentica – che la stampa forse non aveva e non ha colto ancora: “il martirio cui sono sottoposti i cittadini in attesa di giudizio” e “il senso dell’urgenza, dell’urgenza disperata che questo tema della riforma dei codici, della responsabilità dei giudici, questo tema della democrazia veramente attuata non può concedere rinvii, chiacchiere, cabalette romantiche”.

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