L’Italia non è più uno Stato di Diritto. Quando quest’affermazione l’ha fatta il Senatore Silvio Berlusconi nel suo video messaggio dello scorso 12 settembre è sembrata essere l’ennesima esagerazione, incauta, di chi ha il dente avvelenato con la Magistratura e non accetta le sentenze neanche quando queste, dopo il terzo grado, sono definitivamente passate in “giudicato”. Eppure, in quelle parole che all’apparenza possono essere considerate una grossa bugia per coprire i propri personali problemi giudiziari, nascondono una cocente verità. Se non bastassero le continue e ormai trentennali condanne dell’Europa inflitte al nostro Paese per l’eccessiva lunghezza dei processi al ritmo di oltre duecento sentenze all’anno, è più recente la notizia che l’Italia rischia la procedura d’infrazione europea anche per non aver dato attuazione alla legge e alle direttive che esigerebbero la effettiva responsabilità civile dei magistrati. Il 26 settembre l’Unione avrà aperto un procedimento d’infrazione perché l’Italia non si è ancora adeguata alla legge europea riguardante il risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati. Ma questa, parlando di leggi non rispettate dallo Stato Italia, sorvegliato speciale in tema di giustizia, è solo una pagliuzza rispetto alla più grossa trave nell’occhio costituita dalla sentenza della CEDU, la c.d. Sentenza “Torregiani e altri”, dello scorso 8 gennaio 2013 divenuta ormai definitiva lo scorso 28 maggio dopo il rigetto, da parte della Grand Chambre, del ricorso presentato dal Governo italiano perché “la questione carceri è di grave rilevanza istituzionale, non soltanto sociale ed economica”. Una sentenza pilota di rilevanza istituzionale che potrebbe, se il nostro Paese non provvederà entro il prossimo 28 maggio, applicarsi a tutti i detenuti che si trovano nelle medesime condizioni. Una sentenza che ha visto condannata l’Italia non per occasionali ma per “sistematiche e strutturali violazioni” dell’articolo 3 della Convenzione Europea per i Diritti Umani che vieterebbe quei trattamenti inumani e degradanti che, invece, avvengono quotidianamente nelle nostre patrie galere. Uno Stato cessa di essere Stato di Diritto quando cessa, esso stesso, di rispettare la sua stessa Legge fondamentale e le convenzioni internazionali su temi così importanti come la violazione dei diritti umani. Quando Marco Pannella invoca l’amnistia per la Repubblica lo fa non per caritatevole compassione per chi subisce i trattamenti inumani, ma anche e spora tutto, lo per chiedere alle Istituzioni, al Parlamento in primis, di far rientrare lo Stato nell’alveo della propria legalità. Giustizia lentissima, magistrati non responsabili dei propri errori e carceri sovraffollate in cui sistematicamente e strutturalmente avvengono trattamenti inumani e degradanti dei detenuti e, ricordiamolo, delle persone che ivi lavorano. Sono queste le motivazioni che hanno indotto Giacinto Marco Pannella, quale presidente del Partito Radicale, e l’Avv. Giuseppe Rossodivita, presidente del comitato Radicale per la Giustizia, Piero Calamandrei, ad inviare ben 675 “atti di significazione e di diffida” a tutti i Presidenti dei Tribunali Italiani, ai Procuratori Capo di tutte le Procure Italiane, ai Presidenti degli Uffici GIP di tutti i Tribunali Italiani, ai Direttori delle Carceri italiane, e a tutti gli Uffici di Sorveglianza della Repubblica. Partendo dal contenuto della citata sentenza pilota della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, le diffide inviate spiegano il perché, attualmente, decine di migliaia di detenuti, sia in esecuzione pena, sia in custodia cautelare, sono sottoposti ad una pena o ad una misura, tecnicamente, illegali. Il senso delle diffide è che, come vuole la nostra Giustizia, non può esistere pena se non quella che viene eseguita secondo la legge.
Già la CEDU, emettendo la sentenza Torreggiani per violazione sistematica e strutturale dell’articolo 3 della Convenzione, ha sottolineato come lo Stato, fino a quando la politica non avrà risolto il problema strutturale del sovraffollamento carcerario, è comunque tenuto a garantire che l’esecuzione delle pene avvenga nelle forme previste dal codice penale, dalla costituzione e dalle convenzioni sui diritti fondamentali dell’uomo che non possono (o non potrebbero) essere mai derogati. “Lo Stato”, si legge nella sentenza, “è tenuto ad organizzare il suo sistema penitenziario in modo tale che la dignità dei detenuti sia rispettata”. Come ha sottolineato anche la Corte Costituzionale già nel 1966, proprio in riferimento al 3° comma dell’articolo 27 della Costituzione, “Una pena è legale solo se non consiste in un trattamento contrario al senso di umanità”. Articolo 27 della Costituzione che, sempre per la Corte Costituzionale, deve essere integrato da quanto previsto dalla Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo. E lo stesso discorso è valido, ovviamente, anche per chi, ancora da presunto innocente, si trova in carcerazione preventiva in ragione dell’esecuzione di una misura di custodia cautelare. Tuttavia, come spiegano Pannella e Rossodivita nella diffida inviata anche al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano quale Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, nonostante gli auspici della Corte europea la sentenza Torreggiani sembra essere caduta nel vuoto. I magistrati continuano ad applicare misure di custodia cautelare in carcere anche quando non sarebbe strettamente necessario e i direttori eseguono ordini di custodia fuori dalla legalità costituzionale. La diffida si conclude invitando tutti i Procuratori Capo, i Presidenti degli uffici GIP, i Presidenti di Tribunale, a voler conformare – mediante la doverosa e necessaria riorganizzazione del lavoro degli uffici – l’emissione degli ordini di esecuzione pena e delle ordinanze applicative di misure cautelari di custodia agli artt. 3 della CEDU, 27, comma 3, e 117 della Costituzione della Repubblica Italiana. Come? Verificando, prima dell’emissione di un ordine di esecuzione o di custodia cautelare, la disponibilità da parte delle Case di reclusione e/o delle Case circondariale a poter accogliere il destinatario in condizioni tali da non violare il precetto di cui all’art. 3 della CEDU. E, nella diffida, Pannella e Rossodivita invitano pure tutti i direttori delle carceri della Repubblica a voler informare doverosamente i Procuratori della Repubblica, i Presidenti di Tribunale, i Presidenti degli Uffici GIP, in ordine alla possibilità o meno di accogliere i detenuti in condizioni tali da non violare l’art.3 della CEDU che, ricordiamolo, è un diritto umano che non può e non dovrebbe essere mai derogato, neanche in caso di guerra o per motivi di sicurezza nazionale. Speriamo che la ragion di Stato non prevalga, ancora una volta, contro quello Stato di diritto che in Italia più che morto sembra essere dimenticato.
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Giuseppe Candido
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Tappa in Calabria dell’on. Rita Bernardini (Partito Radicale) per la stretta finale sulla raccolta delle firme sui 12 referendum radicali
Riparte da Platì (RC), come promesso, il nuovo giro di Rita Bernardini in Calabria, accompagnata da Giuseppe Candido e Gianpaolo Catanzariti, per continuare e sollecitare la volata finale di raccolta delle firme necessarie per i 12 referendum radicali su giustizia e diritti civili.
Proprio in concomitanza con il digiuno chiesto da Papa Francesco, per la giornata di sabato 7 settembre, per la Siria, e rilanciato da Marco Pannella nelle 206 carceri italiane anche per le giornate di domenica 8 e lunedì 9 contro la violenza e la violenza di Stato, si terranno alcune iniziative in Calabria con Bernardini, Candido e Catanzariti in sciopero della fame.
Si partirà sabato mattina, 7 settembre, da Platì (RC) per una conferenza e raccolta firme, alla presenza dell’autenticatore, cons. prov. Pierpaolo Zavettieri, sino alle 14.00, promossa assieme ai movimenti “Liberi di Ricominciare”, capitanato da Paolo Ferrara e Rosario Sergi ed “I Riformisti Italiani”.
Nel pomeriggio della stessa giornata, dalle ore 17.30 e sino alle 24, si procederà alla raccolta firme sul Corso di Lamezia Terme, organizzata da Giovanna Provato.
Quindi, accompagnati da una delegazione composta dagli avvocati Pietro Modaffari, Emanuele Genovese, Giuseppe Putortì, Francesco Floccari e Marco Panella ed alla presenza del cons. prov. di Reggio Calabria, Demetrio Cara, quale autenticatore, domenica 8 settembre, dalle ore 10.30, si procederà alla raccolta firme all’interno della Casa Circondariale di Reggio Calabria.
Nel pomeriggio di domenica si parteciperà, sino alle 21.00, alla raccolta firme promossa ed organizzata, sin dal mattino, dal circolo di Rosarno (RC) dei Riformisti Italiani in piazza Valarioti.
Lunedì 9 settembre, a partire dalle 9.30, accompagnati da una delegazione composta dagli avvocati Caterina Zavaglia, Domenico Garreffa, e Francesco Formica ed alla presenza del cons. prov. di Reggio Calabria, Giuseppe Longo, si terrà una raccolta firme all’interno del Carcere di Palmi (RC).
Lunedì pomeriggio, accompagnati dal cons. comunale di Vibo, Nestore Colloca, si procederà alla raccolta firme presso il carcere di Vibo Valentia per poi concludere la raccolta, sino alle 24.00 a Taurianova (RC).
Siamo oramai alla stretta finale. Abbiamo il dovere di spingere al massimo per raggiungere il traguardo finale delle 500.000 firme su tutti e 12 i referendum per aiutare l’Italia ad uscire, in tempi rapidi, dalla condizione di illegalità in cui si trova, per un’avanzata sul terreno dei diritti civili e per riportare al centro dell’attenzione il diritto dei cittadini di trovarsi dinanzi ad una giustizia giusta ed efficiente.
Eutanasia legale: raccolta a Catanzaro con Sel e Socialisti ecologisti
Ieri pomeriggio, nonostante il vento e la pioggia che un po’ c’hanno limitato nel numero, non solo abbiamo raccolto le firme per tb ed eutanasia legale ma abbiamo avuto anche l’adesione di Antonio Giglio e Roberto Guerrero, rispettivamente capogruppo in Consiglio Comunale di Sel e dei Socialisti ecologisti per la raccolta firme per i 5 referendum (divorzio breve, 8×1000, droghe, immigrazione clandestina e finanziamento pubblico partiti). Dal prossimo 8 giugno quindi partirà anche a Catanzaro, come in tutta Italia, la raccolta delle 500.000 firme necessarie per ciascun quesito referendario!
Saviano, Pannella e “l’uomo che presero al laccio come un animale”
Roberto Saviano lo fa apposta nello scordare i Radicali. Tortora, il partito antiproibizionista che non c’è. Li dimentica deliberatamente perché non si può neanche lontanamente pensare che lo scrittore non conosca i fatti. La settimana passata, nel parlare del “partito antiproibizionista che vorrebbe poter votare” aveva affermato che, purtroppo, quel partito in Italia non c’è dimenticando Pannella, Bonino e le loro disobbedienze civili.
Questa settimana lo rifà imperterrito: per sconsigliare a Berlusconi di accostarcisi parla di Enzo Tortora ricordando che, proprio come sostenuto dalla figlia del conduttore televisivo, quella sì che fu “un’altra storia”. Certo, un’altra storia che però, anche questa come il partito che Saviano voterebbe, s’incrocia e s’intreccia strettamente con quella del Partito Radicale. Secondo Roberto, ossimoro antitaliano di se stesso, “ci sono aspetti del nostro Paese che continuano a sfuggirci” e candidamente aggiunge di temere che, se ciò accade “la responsabilità” è anche di chi “ha smesso di scrivere la complessità”. “Una di quelle storie che tutti credono di conoscere ma che pochissimi hanno raccontato”. Vero, verissimo. Ma adesso pare che anche la semplicità venga cancellata dallo scrittore: i Radicali furono gli unici che offrirono a Enzo Tortora una bandiera per poter lottare per una Giustizia giusta. Saviano ricorda la storia, le tappe della vicenda, cita il referendum di striscio ma dimentica di dire che Enzo Tortora, l’uomo “che presero al laccio come un animale”, proprio per difendersi nel processo e non dal processo si dimise da eurodeputato quale era stato eletto con il Partito Radicale.
Ma la storia, per capirla veramente, è necessari rileggerla dagli stessi che la scrissero. La storia vera di Enzo Tortora, se la si vuole conoscere e ricordare davvero è sufficiente riprendere i suoi scritti e i suoi dialoghi tutti rigorosamente archiviati dal sito di Radio Radicale, l’università popolare italiana, e su quello di Radicali.it.
Come avvenne la candidatura di Enzo Tortora?
“La telefonata di Marco Pannella” – scriveva Enzo Tortora – “mi arrivò in una sera, anzi in una notte di grande, profondissima disperazione. Da un anno vivo un tormento insopportabile. Una pena che è comune a molti, una tragedia civile che avrei ritenuto impossibile. Addirittura impensabile in un Paese che si ostina, chissà perché, a ritenersi ancora fondato sul diritto. L’uomo che presero al laccio, come un animale, il 17 giugno del 1983 spezzandogli barbaramente la vita, la salute, il lavoro, l’onore, era un uomo molto diverso da quello che oggi scrive queste parole. Ho attraversato tutto il pianeta dell’infamia legale. Ho visto e sentito sulla carne cose che avrei ritenuto assurde e indegne dell’occidente. Forse è bene che sia accaduto questo. Forse è bene, e non per me ma per gli altri, che l’osceno sipario si sia alzato su un fondale ancora più ributtante. Perché quella che ho vissuto e che vive è certo l’Italia vera, autentica. Crudelmente e crudamente reale. Così lontana dall’oleografia ufficiale. Dai paroloni e dai compiaciuti gargarismi di una classe politica che si nutre e ci nutre di chiacchiere, di vuoti propositi, mai completati in un’azione concreta. Lo ripeto, sono il testimone martoriato, e non il solo, di un’Italia medioevale e selvaggia. Giunta ormai a livelli di degrado giuridico e civile da ispirare orrore. La telefonata di Marco Pannella giunse inattesa e inaspettata a un uomo che non aspettava più niente. A un uomo che a gennaio aveva già detto di no una volta perché credeva che qualcosa sarebbe successo. Credeva che una buona volta, una forza politica, avrebbe detto no a questa infamia. Mi fidavo ancora ingenuamente e solidamente di ciò che mi avevano insegnato a scuola: l’Italia è democratica, l’Italia è Europa, l’Italia non pratica più la tortura, non ha la pena di morte, rispetta i diritti inviolabili. Parola che muove al riso: io sono ormai in grado di leggere la Costituzione come un’amara utopia. Ora so che l’Italia, invece, è totalmente immersa per volontà di alcuni uomini e per l’ignavia di un’intera classe politica immersa nella cultura dell’indifferenza e del disprezzo. Fu a questo punto che giunse da Trieste la telefonata di Marco. Non consolava, offriva. Non faceva voti, non emetteva sospiri ipocriti, non inviava inutili telegrammi di solidarietà. Non prometteva tavole rotonde sulle radici quadrate; non auspicava, non indiceva convegni e non prometteva soavi commissioni d’inchiesta. No, Pannella mi offriva un’arma altissima e una bandiera. Usale, mi diceva. “Usale per gli altri, per tutti”. Era ciò che pensavo. Il mio tormento e il mio dolore, la mia rabbia e la mia pena non debbono, non possono non “servire”. Servire agli altri, servire al Paese, servire a quest’Italia beffata, illusa, raggirata, irriconoscibile e ferita. Queste sono parole scritte da Enzo Tortora nel marzo del 1984 in articolo titolato “Quando la Costituzione è un’utopia”. Vecchie di trent’anni ma, nel rileggerle oggi, ognuno di noi sente quanto attuali siano queste parole. Da quel 1984 poco è cambiato. Chi conosce la realtà delle carceri italiane e della giustizia lo sa bene. Anzi, forse qualcosa è anche peggiorata. Perché quando si tradisce un referendum come quello sulla responsabilità civile dei magistrati, non si rimane allo stesso livello. Si torna indietro, si peggiora. La drammatica condizione delle carceri italiane è figlia anche di quella violenza con cui si tradì un voto popolare. “È ripugnante vedere la parola politica” – scriveva Enzo Tortora – “e politica in senso furbastro, da maneggioni o portaborse del potere, inserirsi adesso nel giudizio su quella mia scelta che qualcuno continua a considerare scandalosa. Sono, lo premetto, solo punture di pidocchi dopo le coltellate vere, profonde, che la cosiddetta Giustizia mi ha sferrato. Ma qui i pidocchi contano. Vorrei dire che sinora solo i pidocchi hanno contato. Sbarrai gli occhi, non so se più nauseato o indignato, quando lessi che un autorevole capo tribù democristiano scriveva: ”Mi auguro che Tortora riesca a dimostrare la propria innocenza”, rivelando che la più mostruosa inversione del concetto di onere della prova era ormai avvenuta nella coscienza di troppa gente. Perché qui ormai è addirittura l’innocenza che con fatica, strazio e anni di tormento, deve giungere a dimostrare di essere tale. Non sono gli altri che, con le prove e non con calunnie, devono in tempi rapidi provare la colpevolezza del cittadino. Qualcosa di ignobile è avvenuto nella nostra legislazione. Sta avvenendo sotto gli occhi di tutti, e alla barbarie non si può più dare il nome decentemente di diritto. Rifarei la scelta radicale fra un minuto. La rifarei ogni minuto. Sono profondamente convinto che oggi, in Italia, solo questa sparuta pattuglia di profeti disarmati, vede chiaro, vede lontano, e osa chiamare le cose con il loro nome.” Un “difetto” insopportabile per i media e che Pannella continua ad avere: dire la verità e chiamare le cose con il proprio nome. È così quando parla di uno Stato, quello italiano, tecnicamente e non moralmente criminale perché pluricondannato dalla Cedu per violazione dei diritti umani e per l’eccessiva durata dei processi. Un Paese dove la Giustizia è la vera emergenza senza la quale neanche il lavoro può trovare diritto e diritti. Con quell’ostinazione meravigliosa che è solo dei forti e degli uomini con la coscienza netta, Pannella “rilancia” e “provoca” sull’ingiustizia italiota ancora oggi. Come affidava allora a Tortora quella “bandiera” oggi Pannella la affida ai suoi compagni e ai detenuti nelle carceri che spesso coincidono e con cui sciopera. Affida quella bandiera alla loro coscienza, al loro cuore, perché tra il resto dell’ignavia lì c’è chi comprende l’urgenza delle urgenze. Allora Tortora sapeva e lo scriveva: “So che significa. L’ho sempre saputo. So che dietro di me, a guardare con speranza, ci sono uomini, migliaia di uomini e di donne che soffrono e che penano per una situazione, dico quella della carcerazione preventiva, che occorre cancellare dalla storia come si cancella una insopportabile vergogna”. Sarebbe una sorpresa benedetta se un Governo riuscisse a fare una riforma della Giustizia. Perché anche oggi, “in un Paese in cui l’altra faccia è invece la pigrizia e la noia, in un Paese in cui il cinismo e il malaffare istituzionalizzato sono pratica quotidiana, allora la parola “sorpresa” è benedetta”.
Ma c’era un’altra cosa – che Tortora sottolineava e che Saviano pure dimentica – che la stampa forse non aveva e non ha colto ancora: “il martirio cui sono sottoposti i cittadini in attesa di giudizio” e “il senso dell’urgenza, dell’urgenza disperata che questo tema della riforma dei codici, della responsabilità dei giudici, questo tema della democrazia veramente attuata non può concedere rinvii, chiacchiere, cabalette romantiche”.
In nome dell’amicizia col Raìs
di Giuseppe Candido
Il “gradito ospite”, come è stato definito da qualche editorialista il dittatore libico Gheddafi, ci spara, mitraglia un peschereccio italiano che, secondo il diritto internazionale, si trovava in acque internazionali a 30 miglia dalla costa libica nel golfo della Sirte. L’italietta di Berlusconi che ha ceduto al circo del colonnello e la chermes di Gheddafi ora è imbarazzata. “Immagino che ci abbiano presi per una motonave di clandestini” ha dichiarato il ministro Maroni. E i suoi trenta cavalli berberi che ne avevano caratterizzato la visita oggi non fanno più notizia. L’amico dittatore che era giunto a Roma per celebrare il secondo anniversario della firma del Trattato di amicizia fra Italia e Libia oggi è sulle pagine dei giornali per l’episodio sconcertante verificatosi lo scorso 12 settembre. Per l’equipaggio dell’Ariete mitragliato dalle motonavi libiche non deve sembrare un “trattato di amicizia” quello tra Italia e Libia. “Siamo vivi per miracolo” hanno detto, “sparavano per colpire”. Un trattato votato da centro destra e centro sinistra con voto bipartisan, ad eccezione dei Radicali e di qualche sparuto nome del Pd come Furio Colombo. Voti ribelli li definisce qualcuno. Saggezza contro-partitocratica altri. E il bello che sulle navi libiche c’erano anche militari italiani. Il Radicale Matteo Mecacci, eletto nel Pd, anche alla luce dell’aggressione ha presentato un’interrogazione parlamentare proprio in merito al trattato Italia-Libia al centro delle polemiche di questi giorni. “Chi parla – spiega subito Mecacci – è stato sin da subito contrario al trattato d’amicizia tra Italia e Libia ma credo che oggi, anche chi ha votato favorevolmente debba riconoscere che bisogna fare un bilancio di quel trattato in quanto i suoi contenuti sono, in molti casi profondamente sbagliati”. E’ così che introduce Mecacci il suo intervento con la speranza di proporre all’aula una riflessione seria. “In nome dell’amicizia un peschereccio italiano è stato mitragliato e inseguito per ore da una motonave guidata da Libici che però era stata donata alla Libia proprio dal Governo italiano e sulla quale stavano dei funzionari italiani che non hanno potuto impedire che si mitragliasse su dei cittadini italiani”. Un incidente? No, per Mecacci si tratta di un “fatto gravissimo per il nostro Paese perché noi ci siamo impegnati, con questo trattato, a dare decine di milioni di euro ogni anno e il ministro Maroni, prosegue il parlamentare Radicale, non può dirci che sono stati scambiati per dei clandestini perché nessun ministro di un Paese Civile può immaginare che si spari a dei migranti che, ricorda Mecacci, non sono dei delinquenti ma, molto spesso, sono persone che chiedono asilo e protezione internazionale dai crimini subiti nei loro paesi”. Per questo Mecacci chiede di provvedere alla revisione di questo trattato che, forse, non avrebbe dovuto neanche essere fatto. Del resto, come ci ricorda Walter Vecellio dai microfoni di Radio Radicale, al vertice del G8 all’Aquila tenutosi nel luglio del 2009, il premier inglese Gordon Brown e il leader libico definirono le modalità e trattarono il rilascio “umanitario” del terrorista Abdel Basset Ali al-Megrahi, uno degli accusati per la strage di Lockerbie. Il 20 luglio il terrorista venne rilasciato perché malato di cancro ma appena sbarcato a Tripoli riacquistò la salute. Cosa c’abbia ricavato la Gran Bretagna da quel rilascio “umanitario” non è ben chiaro ma sta di fatto che la British Petrolium, la famosa BP che ha combinato il danno ambientale nei mari del Golfo del Messico con la fuoriuscita di miliardi di barili di petrolio, ha ottenuto in esclusiva le concessioni per l’apertura di nuovi pozzi nel golfo della Sirte. È legittimo chiedersi cosa sappia Berlusconi e quale parte abbia svolto il suo governo in quella trattativa. “La coda di un’operazione che viene da lontano”, spiega Vecellio, “quando Gheddafi, Berlusconi e l’ex premier Tony Blair, svolsero un ruolo di primo piano e di fattiva complicità con l’ex Presidente americano George Bush, nel far fallire i tentativi, che erano ormai giunti in dirittura d’arrivo, per scongiurare il secondo conflitto con l’Iraq e garantire l’esilio al dittatore iracheno Saddam Hussein”. È da allora che Gheddafi viene accolto nel salotto buono della politica italiana e della comunità internazionale che gli lascia svolgere un ruolo di primissimo piano nell’ambito della comunità africana. Ma sarebbe tempo, però, di fare chiarezza anche sui rapporti tra Italia e Libia. Per comprenderli bisogna ricordare l’impunità che veniva concessa ai terroristi libici che uccidevano, in Italia, i dissidenti del regime del colonnello e che venivano rimpatriati. Non bisogna dimenticare gli addestramenti che venivano fatti, in Italia o da parte di addestratori italiani in Libia, ai piloti del Raìs. Oggi però, con questo vertice sul trattato di amicizia, si è raggiunto il massimo di ambiguità e ipocrisia. E per capirne i motivi dovremmo cercare di guardare il tipo di politica estera che stanno conducendo aziende italiane come Eni e Finmeccanica che in quel paese hanno grossi interessi. Insomma, “sarebbe tempo”, conclude Vecellio nel suo diario quotidiano, “che la Farnesina spiegasse al Parlamento gli accordi stipulati con Tripoli”. Sarebbe bene cioè che anche l’opinione pubblica fosse messa in condizioni di sapere e di giudicare questi rapporti d’amicizia che s’intrattengono con un dittatore e che mettono i nostri pescherecci a rischio pallottole.
Nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Presagi e moniti di Benedetto Musolino
“E’ ben giusto che chi gode i maggiori privilegi, sia sottomesso ai maggiori sacrifici”
Un calabrese dalla “costante fede italiana” che “amava aguzzare l’occhio nell’avvenire della Patria”
Per una riforma radicale: l’imposta progressiva per combattere la lussuria irrompente del capitale
di Giuseppe Candido e Filippo Curtosi
Quando la politica, anche quella calabrese, sembra perdere il suo senso d’Unità e pensa a secessioni e a partiti “meridionali” per competere con la La Lega del Nord, forse non è davvero tempo sprecato guardarci indietro, non per commemorare, ma per trarre, dai migliori, l’esempio.
In una piazza di Pizzo di Calabria, la bella epigrafe dettata da Ferdinando Martini fa ammenda dell’aspro giudizio di taluni contemporanei, e dice in sintesi della vita e delle gesta di Benedetto Musolino (Pizzo, 1808-1885), patriota e politico Senatore del Regno d’Italia nella XIII legislatura. A ricordarlo era Alfredo Gigliotti, direttore di una vecchia rivista di “Rassegna Calabrese”. Un mensile di vita, cultura, informazioni che, nel numero unico di novembre e dicembre del 1961, in occasione del centenario dell’Unità d’Italia, ne ripercorreva la vita e le gesta per consentire ai posteri di “correggere le sentenze ingiuste”. Perché, scriveva il Gigliotti, “E’ ben vero che i posteri sono quasi fatti apposta per correggere le sentenze ingiuste dei predecessori”. La famiglia Musolino occupa uno dei cospicui posti della storia del Risorgimento: lo zio e il Padre di Benedetto erano stati patrioti del novantanove ed avevano dovuto emigrare a causa della persecuzione delle bande del Cardinale Ruffo; lo zio Domenico e il figlio primogenito Saverio, erano stati poi uccisi durante la reazione del ’48; una sorella del giovane Benedetto fu madre di Giovanni Nicotera. Ma tutte le virtù familiari e patriottiche sembrarono riassumersi in Benedetto Musolino, nato l’8 febbraio 1809.
Giovanissimo, visitò l’Impero Ottomano; studente a Napoli fondò con Settembrini una “Giovine Italia”, una setta conosciuta come “Figlioli della Giovine Italia”, men fortunata di quella del Mazzini; cospiratore soffrì il carcere, combattente all’Angitola, nel ’49 promosso Colonnello di Stato Maggiore, ritornò dall’esilio di Francia per raggiungere Garibaldi in Sicilia. Fu quindi capo dell’insurrezione calabrese del 1860 e “deputato garibaldino al parlamento fino alla XIII Legislatura, ove portò alta e generosa l’affermazione della sua costante fede italiana”.
L’8 maggio del 1839 venne arrestato e assieme a lui presero la via del carcere anche il fratello Pasquale, Saverio Bianchi, Raffaele Anastasio e Luigi Settembrini. Liberato tre anni più tardi gli venne imposto di raggiungere il proprio paese dove viveva sotto stretta sorveglianza con l’obbligo di non allontanarsi dall’abitato anche di giorno e il divieto di rimanere fuori casa dopo il tramonto.
Un sorvegliato molto speciale che anche in quelle condizioni ebbe però il coraggio di cospirare ancora, assieme ad Eugenio De Riso e altri, per preparare i moti che poi sfociarono nella rivoluzione del 1848.
Musolino, scriveva il Gigliotti, “aveva il fervore della fede e delle idee, talvolta senza conoscere il freno, onde fu spesso ritenuto piuttosto uno spirito bizzarro che sapeva dire stravaganze brutali e verità”. Un uomo di pensiero e azione, un patriota che “Amava aguzzare l’occhio nell’avvenire della Patria e dimostrò averne il senso e la perspicacia negli anni avanzati, così come, nei tempi della giovinezza, aveva avuto l’ardore dell’azione”.
Per un decennio si batté alla Camera quasi solo per la preparazione nazionale, lanciando proposte, illustrando progetti che ammiriamo ancora oggi.
Radicale nell’animo. In un discorso pronunciato alla Camera il 30 giugno del 1861, Benedetto Musolino domandava se la Francia avesse mai pronunciato una sola parola relativa all’unità italiana. E rispondeva: “No. E dunque come fondate voi la vostra speranza nell’aiuto di questa alleata? Io dico – continuava Musolino – che l’alleanza della Francia non esiste più. Questa è un’altra illusione che ci facciamo: pretendiamo o fingiamo pretendere di penetrare a forza di fantasia là dove ci vogliono cannoni e baionette. (…) L’Italia diverrà grande alla sua volta con saviezza delle sue istituzioni, con la sua industria e con la sua forza: allora essa darà alla Francia la sua libertà”. Considerando, inoltre, l’infido atteggiamento francese nei confronti di Roma dimostrava quanto fossero illusi coloro che avevano sempre predicato Napoleone III il più sincero promotore ed amico dell’Unità italiana ed ammoniva: “Bisogna fare causa comune con la Germania, armarsi poderosamente, prendere da una parte Roma e dall’altra invadere il territorio francese incominciando con l’occupazione di Nizza e Savoia”.
Più oltre, nello stesso discorso, Musolino, pensando di aver dinnanzi i francesi, dichiarava la volontà italiana: “Non temete, l’Italia non aspirerà a conquiste, siamo contenti della nostra terra, del nostro cielo, della nostra eredità: in Italia non abbiamo razze diverse, diversa lingua, istinti diversi: una è la lingua, una è la razza. La base della nazionalità sta nella razza e nella lingua”. Ancora ignaro – su questo – quante sciagure, proprio quei nazionalismi basati su razza e identità linguistiche, avrebbero a breve causato.
Dura la critica al socialismo che si andava profilando. Si intese di economia e il 18 marzo del 1863, quando alla Camera si prendeva in esame il fabbisogno finanziario della Nazione, Benedetto Musolino, “che ad ogni problema apportava competenza dotta e sicura”, pone all’ordine del giorno dei suoi colleghi deputati “una riforma radicale” del sistema contributivo proponendo “l’imposta progressiva”. Nel corso della sua esposizione sollevava, senza assumere atteggiamenti demagogici, le sue accuse contro l’ingiustizia sociale della distribuzione della ricchezza e precisa i rapporti tra capitale e lavoro criticando aspramente le “malsane deviazioni dell’incipiente nostro socialismo”: “Il lavoro è mal ripartito, afferma Musolino; il capitale assorbe tutto. L’operaio lavora quando il capitalista lo vuol far lavorare e, quando questi non ci trova più la convenienza, lo getta sulla via”. E se ciò non bastasse afferma parole di straordinaria attualità anche oggi: “Signori, la pretesa civiltà moderna tende a sostituire il feudalesimo economico all’antico soppresso feudalesimo civile e politico. Tutt’oggi è capitale, e noi tendiamo ad una radicale trasformazione sociale. Se vogliamo costruire il nuovo Stato, la nuova società, su basi incrollabili, atteniamoci alla giustizia distributiva. Di fronte a questa lussuria sempre irrompente del capitale, io credo che per ora non c’è nessun altro rimedio se non l’imposta progressiva. Dacché il capitale è tanto favorito, è ben giusto che chi gode i maggiori privilegi, sia sottomesso ai maggiori sacrifici”. Personaggio polivalente e poliedrico dedicò “studi diligenti” ai problemi di politica nazionale ed internazionale. Capì che per avere e mantenere la sicurezza in Patria e nell’Europa delle nazioni di allora, era necessaria una forza armata nazionale di professionisti “allenati”. In occasione della discussione sul riordino e sull’armamento della Guardia Nazionale proposti da Garibaldi si espresse affermando che: “Bisogna che il cittadino acquisti le attitudini che all’occorrenza lo facciano essere soldato, e perché diventi soldato bisogna che sia istruito in tutte quelle pratiche che costituiscono l’arte militare. Perché si ottenga un’istruzione solida da avere, al bisogno, tanti soldati quanti sono i cittadini capaci di tenere un fucile, è d’uopo che ogni cittadino sia abituato alle pratiche della milizia”. A tale fine prevedeva periodiche “esercitazioni” che avrebbero conferito “un’idea precisa di come guerreggiare in campo” per cui, “in breve tratto di tempo si potrà vedere il nostro popolo armato ed esercitato, ed in caso di bisogno non avremo più dei corpi di truppa incomposta, ma dei soldati d’ordinanza”.
Attento ai problemi internazionali nel novembre del 1872, Musolino prende la parola alla Camera per esporre il suo pensiero netto e chiaro sui rapporti tra la Russia, la Prussia e l’Austria, i cui imperatori si erano incontrati in un convegno a Berlino nell’ottobre precedente: “La razza slavo moscovita si ritiene come predestinata al compimento di una grande missione, al rinnovamento dell’umanità accasciata sotto il peso della decrepitezza e della corruzione, mediante l’assorbimento delle altre razze, nazioni e credenze allo stesso centro politico e religioso. E’ un’utopia, escalamo taluni. Ed io rispondo che diventerà realtà se l’Europa non vi provvede in tempo. Se l’Europa le permetterà, non dico di fare, ma di sviluppare gli immensi elementi di potenza e di espansione che in sé racchiude, prima di mezzo secolo il vecchio continente di Europa e di Asia sarà invaso e dominato dalla razza slavo-moscovita (…). Per analoghi motivi la Prussia, avendo innalzata la bandiera della nazionalità, deve necessariamente osteggiare ogni ingrandimento della Russia e perché non può lasciarsi assorbire in Europa e perché non può permettere che quella estenda la sua dominazione nell’Asia minore. Il giorno che l’Europa permetterà alla Russia di sboccare e avere possessi nel Mediterraneo, sia avanzando dalla parte del Bosforo sia discendendo dall’Armenia in Siria e in Anatolia, l’Europa avrà segnato il decreto della sua servitù, giacché avrà concesso alla Russia il mezzo di come avere quei marinai che non può avere con le sue gelate contrade: marinai senza cui non potrà mai mettere in piedi delle grandi flotte che le sono indispensabili per girare le nazioni di occidente, onde neutralizzare la loro azione e il loro concorso quando sarà arrivato il momento di operare contro tutta l’Europa, invadendola da lato della Germania con enormi masse che potrà avere al più tardi fra due generazioni a causa dello sviluppo naturale e prodigioso della sua popolazione. E la Germania si trova nella stessa nostra condizione come quella che, essendo confinante con la Russia, sarebbe esposta elle prime invasioni dalle orde settentrionali, che per essere le prime, sarebbero accompagnate dal maggiore accanimento e seguite dalle più desolanti rovine.
I sapienti uomini politici del nuovo Impero Germanico non possono né debbono chiudere gli occhi di fronte all’avvenire che è riservato a tutte le Nazioni del vecchio continente dallo spirito di cosmopolitismo moscovita. E se non pensiamo fin da ora a mettere quest’ultimo nell’impotenza di continuare la sua espansione, essi avranno fabbricato sull’arena. Potranno ben costituire una Germania sapiente, splendida, gloriosa, ma sarà una Germania che non durerà più di cinquant’anni”.
Sorprendono ancora l’attualità e la veridicità dei presagi di quest’eroico garibaldino e dovrebbero destare ammirazione sincera. Crediamo giusto che quello spirito, quei suoi discorsi, quel suo ardore, quelle di idee e quelle azioni di rivoluzionario, patriota e politico di “fede italiana” fossero meditati anche oggi in questo cento cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, alla quale Musolino, assieme a tanti altri di Calabria, sacrificò la vita e ogni bene di fortuna. Sarebbe sicuramente un bell’esempio per vecchie e nuove generazioni.
Eco tasse: un rivoluzione ambientalista, sociale e liberista
di Marco Cappato e Elisabetta Zamparutti
(Radicali italiani)
Pubblicato su “Il Foglio” del 01.05.2010
A 16 anni di distanza dal tremontiano “spostare le tasse dalle persone alle cose”, è necessario non solo passare dalle parole ai fatti, ma anche prendere in considerazione l’immenso patrimonio delle risorse naturali finora fiscalmente trascurato. Spostare le tasse “dal lavoro all’ambiente”, dunque: questa è l’urgenza per una rivoluzione fiscale che non si ponga soltanto l’obiettivo di una maggiore equità nei confronti dei lavoratori e di efficienza nella riscossione, ma anche di migliorare la qualità della vita rafforzando il libero mercato.
Aria, acqua e suolo sono risorse quasi sempre utilizzate senza che alcuno paghi un prezzo corrispondente al loro valore. Dalle emissioni di c02 all’inquinamento di mari e fiumi, dalla cementificazione del suolo alla distruzione di biodiversità, il consumo di risorse non rinnovabili sotto forma di inquinamento e esaurimento di capitale naturale è realizzato senza che le ricadute per tutti in termini di minore salute, benessere e ricchezza siano riconosciute nel loro effettivo valore economico. In termini globali, l’utilizzo di risorse naturali da parte dell’uomo ha da tempo abbondantemente superato la capacità del pianeta stesso di rigenerarle.
Nel mettere mano alla riforma di un fisco come quello italiano, che spreme i lavoratori e penalizza le imprese, bisogna dunque valorizzare il patrimonio dilapidato di risorse comuni ambientali. Il principio da affermare per una riforma fiscale sostenibile dovrebbe essere quello di una progressiva riduzione del carico fiscale sul lavoro al quale corrisponda un aumento della pressione fiscale sul consumo dei beni ambientali. Una prima occasione è resa urgente dallo sforamento degli impegni italiani in sede di Unione europea per la riduzione delle emissioni di co2. I Parlamentari radicali hanno presentato una proposta di legge per creare un’imposta “sui consumi di combustibili fossili” nei settori non soggetti al sistema dell’”emission trading” e “finalizzare il gettito derivante dall’imposta a ridurre il carico fiscale sui redditi da lavoro”. Gli ordini di grandezza inizialmente l imitati (si potrebbe partire da 13 euro a tonnellata di CO2 emessa, cioè circa 3 miliardi) diverrebbero importanti (35 miliardi) qualora raggiungessimo, con la necessaria gradualità, l’attuale livello svedese.Se il principio della carbon tax fosse esteso agli altri beni ambientali, l’incidenza sulla composizione del carico fiscale potrebbe in pochi anni diventare davvero significativa, a livello non solo nazionale, ma anche locale: consumo di acqua potabile al di là dell’uso domestico minimo; consumo del suolo; occupazione di suolo pubblico per automezzi privati; produzione di rifiuti domestici e industriali. In tempi di federalismo fiscale non si tratta di questioni marginali.
L’impatto e la sostenibilità politica di una riforma fiscale di questo tipo dipende da alcune condizioni.
La prima è che non possa avere in alcun caso come conseguenza l’aumento della pressione fiscale: ogni euro raccolto dalle tasse ambientali, qualunque sia il loro gettito complessivo, deve essere rigidamente vincolato alla corrispondente diminuzione di almeno un euro delle tasse provenienti dai redditi da lavoro e impresa. La pressione fiscale complessiva dovrebbe semmai nettamente diminuire, attraverso quella riforma delle pensioni e del welfare che Debenedetti ha proposto su questo giornale e sulla quale come Radicali abbiamo presentato diverse iniziative anche parlamentari.
Sempre sul piano sociale, la seconda condizione è che si neutralizzino gli effetti regressivi che ogni tassazione indiretta produce. Le compensazioni a favore dei più poveri non dovranno necessari amente avvenire sotto forma di esenzioni, ma preferibilmente di accesso a servizi pubblici anch’essi “virtuosi”, in particolare nel settore dei trasporti (pubblici e collettivi) o delle abitazioni (promuovendo la massima efficienza energetica). Solo garantendo il contenimento della pressione fiscale complessiva e l’eliminazione degli effetti regressivi si può ottenere il consenso sulle tasse ambientali. Anche per questo, incontreremo i sindacati dei lavoratori e degli imprenditori per discutere la nostra proposta.La terza condizione è quella di definire subito l’andamento del nuovo sistema di imposizione nel lungo periodo, anche tra venti o trent’anni: solo con aspettative certe si può innescare un circolo virtuoso sugli investimenti che portino a una transizione “dolce” verso settori e metodi di produzione più sostenibili.Una riforma del genere contribuirebbe ad avviare una vera e propria rivoluzione, oltre che “ambientalista” anche “sociale” (rispetto al costo del lavoro e all’evasione) e persino “liberista”, nel senso dell’applicazione del libero mercato, operando sul meccanismo dei prezzi invece che su dirigiste imposizioni di metodi produttivi o di altrettanto arbitrari e distorcenti “eco-incentivi”.
Non è invece una condizione, ma soltanto un ulteriore obiettivo, quello di coinvolgere la comunità internazionale. Se infatti è certamente vero che l’ambiente è questione globale, e dunque ogni azione isolata avrebbe un impatto limitato, ciò non significa che il nostro sistema economico subirebbe un danno a intraprendere politiche di avanguardia. Al contrario, oltre a sviluppare competenze imprenditoriali “verdi”, saremmo finalmente tra quel gruppo di Paesi virtuosi che hanno più da guadagnare che da perdere nel caso -probabile oltre che auspicabile- di consenso per accordi globali su ambiente e clima. Potremmo così sostenere proposte, come quella avanzata per ora senza successo dalla Presidenza svedese dell’UE, di una tassa europea sulle emissioni, da far pagare anche sui beni di importazione extra-UE. Per fugare ogni tentazione protezionistica, l’Europa potrebbe vincolarsi all a restituzione del gettito ai Paesi esportatori “inquinanti”, ma sotto forma di investimenti per la salvaguardia del patrimonio ambientale di quei Paesi. Anche sul piano internazionale, mercato e ambiente possono essere rafforzati assieme, e le eco-tasse sono lo strumento adatto.
I 150 anni dell’unità d’Italia e Giuseppe Mazzini, precursore del nuovo diritto pubblico europeo
L’apostolo che ci ha mostrato il cammino verso un nuovo mondo
Uno di quegli eroici veggenti. “Mentre l’Italia dormiva, egli vegliava pensava e agiva”
Per l’Unione dei partiti radicali. Per “la sovranità del popolo, libero di ogni laccio di chiesa costituita e militante”
per cura di Giuseppe Candido e Filippo Curtosi
“Foste schiavi un tempo,
poi servi,
poi salariati:
sareste fra non molto,
purché lo vogliate,
liberi produttori e fratelli nell’associazione.”
Prima l’unione della Lombardia al Regno di Sardegna, la fusione con l’Emilia, la Romagna e la Toscana sino al loro congiungimento alla Sicilia, al Mezzogiorno, alle Marche e all’Umbria e, nel 1861, venne proclamato il Regno d’Italia. L’embrione era stato generato. “Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato; Noi abbiano sanzionato e promulghiamo quanto segue: Articolo unico: Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi Successori il titolo di Re d’Italia. Ordiniamo che la presente, munita del Sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta degli atti del Governo, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato. Da Torino addì 17 marzo 1861”. Il 21 aprile 1861 quella legge diventa la n. 1 del Regno d’Italia. Mancavano però, ancora, il Veneto che vi si aggiunse nel 1866, Roma e il Lazio sotto al dominio papalino sino al 1870, la Venezia Tridentina e la Venezia Giulia per le quali si dovette aspettare sino al 1918. E’ la storia è più bella che il secolo XIX offre all’Europa nel campo delle unificazioni nazionali. Un grande esempio che il Risorgimento italiano ha donato al mondo intero realizzando l’unità attraverso la libertà.
Il 17 marzo del 2011 l’Italia compirà 150 anni. Il Paese del “bel canto”, acciaccato ma ancora in piedi, ne ha fatta di strada dal lontano 17 marzo 1861 in cui il neonato Parlamento (con sede a Torino presso il famoso “Palazzo Carignano”) sancì la proclamazione del Regno d’Italia. Ma spesso gli anniversari, le ricorrenze, si accavallano e, il prossimo 10 marzo, sarà pure il 139mo anniversario dalla morte di uno degli uomini considerato, assieme a Giuseppe Garibaldi, Vittorio Emanuele II e Camillo Benso, uno dei padri della patria. Con Giuseppe Mazzini, il più grande degli esuli dopo Dante, “il pensiero vola allo scoglio di Caprera, a quel Pantheon dell’umanità, ove riposa l’eroe leggendario – l’uno rappresentante il pensiero della patria, l’altro esprimente l’azione popolare, mentre l’Italia giaceva sotto il giogo dei preti e dei tiranni”. Qualcuno oggi polemizza se l’Unità d’Italia sia stata un bene oppure una fregatura, soprattutto per il mezzogiorno. Noi non vogliamo entrare in queste considerazioni e vorremo invece concentrare l’attenzione su una delle figure cardini della Giovine Italia. Nato a Genova il 22 giugno del 1805 Giuseppe Mazzini, politico e patriota, si presenta ai giovani, ancora adesso, come una figura “luminosa”.

“La repubblica, come necessità storica sorgerà dai cento errori governativi che terranno dietro ai cento commessi; sorgerà, dal convincimento degli animi, che la guerra ogni giorno alla libertà degli italiani, alle associazioni, alla stampa, al voto, è conseguenza inevitabile del sistema, non d’uno o d’altro ministero; sorgerà dal senso di pericolo mortale e di disonorare che lo spettacolo di corruzione dato da un governo senza dignità e senza amore, susciterà presto o tardi, onnipotente negli uomini che hanno a cuore l’avvenire della Patria”.
Tutti gli uomini, per quanto di nazionalità diversa, già separati dal tempo, e aventi concetti filosofici opposti, vedute contraddittorie sul modo di considerare molti particolari dell’organizzazione sociale, possono nondimeno sentirsi collegati insieme da un vincolo supremo.
Il vincolo che ci unisce a Mazzini, secondo Yves Guyot, direttore de “La Siécle”, quotidiano francese stampato come “giornale politico, letterario e d’economia sociale” tra il 1836 e il 1932, è il seguente: “Al veder mio v’hanno, al di sopra di tutte le questioni secondarie, due grandi dottrine: la dottrina del regresso e la dottrina del progresso: La prima si riconosce da’ eguenti sintomi: predominio dei più sopra i pochi: strumento di si fatto predominio, la menzogna e la forza: oppressione dell’uomo che si riflette sulla donna: annullamento del fanciullo mercé quelle due oppressioni in accordo fra loro: quindi atonia intellettuale, morale e fisica: spoliazione de’ deboli a beneplacito di tutti. In sì fatto ambiente: l’ira d’individuo ad individuo, da religione a religione, da credenza a credenza, da città a città, da favela a favela, da razza a razza: la guerra, fine supremo dell’umana attività!
La seconda, all’incontro, ha per intento: il rispetto della personalità, quale che ne sia il sesso o l’età, la patria e il colore: l’eguaglianza di tutti dinnanzi al Diritto: la protezione dei deboli, la distruzione dei privilegi usurpati dai forti; la libertà per tutti; libertà di disporre della propria persona sotto la propria responsabilità; libertà d’andare, di venire, di operare; libertà di pensiero, di parola, di scritto; libertà di associarsi pel compimento di tutti quegli atti, che, se commessi da individui isolati, non sarebbero considerati criminosi: fusione di tutti i componenti la famiglia umana, nella progressiva evoluzione.
E questa dottrina fu quella che Mazzini insegnò: al suo trionfo Ei consacrò l’intera sua vita: e la profonda traccia da Lui lasciata nell’animo di quanti lo conobbero, è prova inconfutabile dell’efficacia dell’opera sua. L’umanità mi appare quale immenso ammasso di tronchi mutilati, inconsci, ciascuno dei quali si va piegando e ripiegando in dolorose convulsioni; tutti urtandosi, dilaniandosi, divorandosi gli uni gli altri ne’ loro perenni sforzi per riunirsi e costituire un Essere guidato da un’intelligenza e da un’unica volontà. E stimo suoi più grandi benefattori coloro che, afferrando i tronchi del mostro, gettandosi fra quelle ritorte, immergendo il braccio nelle fauci divoratrici per strappar loro la preda, senza timore di esserne soffocati, lacerati, o contaminate dalle loro brutture hanno lavorato a ricostruire le vertebre affiacchite, affinché, al ridestarsi della coscienza che era venuta meno, l’Umanità scoprisse il suo ideale di perfettibilità, e lo attuasse. Mazzini fu uno di quegli eroici veggenti. Quanti credono nel Progresso, conclude il giornalista, gli debbono il tributo del loro rispetto e della loro ammirazione. Ed io vi sono riconoscente di avermi offerto l’occasione di deporre il mio”.
Le idee di Mazzini e la sua azione politica, senza dubbio contribuirono in maniera decisiva alla nascita dello Stato unitario italiano, la cui polizia lo costrinse però alla latitanza fino alla morte, a Pisa nel 1872. “Il corpo a Genova, il Nome ai Secoli, l’Anima all’Umanità”. Idee che furono di grande importanza, anche successivamente all’Unità, nella definizione dei moderni movimenti europei e per l’affermazione della democrazia attraverso la forma repubblicana dello Stato. “X MARZO” era il titolo di un foglio stampato a Napoli – il 10 marzo ovviamente – nel 1889, presso lo stabilimento tipografico dell’Iride. Ritrovarlo assieme alle “antiche riviste calabresi” di un facoltoso signore deceduto è stato un caso davvero fortunoso poiché lo stesso veniva spedito al “Distinto Giovane Signor Ferdinando Grano” in Monteleone di Calabria. Non solo il Guyot. Sul foglio sono riportati scritti del Mazzini stesso alternati a fantastici editoriali di scrittori.
Mazzini “Si presenterà luminoso al secolo venturo per queste ragioni chiare: Fu araldo dell’Idea nazionale e fondò la Giovine Italia; Fu precursore del nuovo diritto pubblico europeo e fondò la Giovine Europa; Derivò l’azione dal pensiero ed ordinò la filosofia e le lettere ad alto fine politico; Intese l’inutilità di parlare ai poteri costituiti ed alle generazioni vecchie e si rivolse alle generazioni nuove ed al popolo con lingua di popolo. Fu inteso. Il suo pensiero fu convincimento, carattere, vita sua e vita di nazione. Tanto s’ingrandisce di anno in anno quanto s’impiccolisce la distanza fra lui ed il suo ideale” scriveva Giovanni Bovio.
Il pensiero politico e sociale dimostrano che Giuseppe Mazzini fu davvero una di quelle “grandi anime che visitano d’epoca in epoca, l’Umanità per annunciare un nuovo ordine di cose”.
Così Cajo Renzetti nel ricostruirne il pensiero politico e sociale per quel numero Unico del 1889 a diciassette anni dalla morte. “Mazzini fu uno di quegli eroici veggenti”. “Queste potenti individualità sorgono, confusamente presentite da molti, sul morire di una fede religiosa allo spirare di un periodo storico filosofico. Sorgono potenti della sintesi del passato e forti dell’intuito divinatore dell’avvenire. Ardentemente amano, e però nella lotta contro l’errore si scagliano cavalieri della morte. La loro virtù atterra e suscita, abbatte ed edifica. L’epoca li deride li calunnia li perseguita, ed essi perseguono immutati, paghi della riconoscenza del futuro”. Giuseppe Mazzini patriota cospiratore legislatore filosofo e letterato, “Siffattamente agitò redarguì ammaestrò e risospinse per oltre quarant’anni la vecchia Europa, che fondò una patria, l’Italia, e gittò le prime pietre di una civiltà”. Tra la chiesa cattolica ed il secolo, egli evocò la libertà di pensiero e di coscienza. Tra la libertà ibridamente sposata al principato, la democrazia. Tra i capitalista e il salariato, il libero produttore”. La missione di Giuseppe Mazzini è essenzialmente “Rigeneratrice morale umanitaria, e questa si estende a tutti i popoli ed abbraccia tutte le nazioni.” “Senonché egli nasce in un paese decaduto da tanti secoli, fra un popolo diviso e oppresso per molti despoti, e deve consacrare anzi tutto le proprie facoltà a ridestarlo a sospingerla alla conquista dell’unità e della libertà , le due prime basi le due prime leve potenti d’ogni durevole e salda conquista sociale”. Eccolo quindi dalle carceri di Savona, al triumvirato della Repubblica Romana del 1849; e dalla Giovine Italia, alla Alleanza universale dei popoli”. Egli è l’uomo dei politici ardimenti che col fervore di un antico ascende la gloriosa tribuna dei Gracchi, e più fortunato e più innovatore di Crescenzio di Arnaldo di Stefano Porcari e di Cola da Rienzo, decreta la fine del Papa e del re, proclamando la sovranità del popolo, libero di ogni laccio di chiesa costituita e militante, sciolto d’ogni tirannide di mediazione spirituale o temporale. Egli è l’uomo delle redentrici aspirazioni che detta il libro dei Doveri dell’Uomo, dove con sapienza mirabile tenta armonizzare la libertà colla legge, l’individuo coll’aggregazione, la proprietà col lavoro, la donna coll’uomo. E in tutto questo suo processo filosofico umanitario, due grandi e belle figure spiccano luminosamente, i due primi ed ultimi esseri della creazione, i due tipi eternamente giovani della società, la Donna e l’Operaio. Proprio nelle ultime linee dei Doveri dell’Uomo, quasi estremo legato ai posteri, egli ha scritto: “L’emancipazione della donna dovrebbe essere costantemente accoppiata per voi, coll’emancipazione dell’operaio, e darà al vostro lavoro la consacrazione d’una verità universale.” Mazzini è cultore altissimo dell’arte, ma, continua il Renzetti, “l’arte per l’arte non costituisce il suo ideale. Per lui arte significa missione, missione morale e sociale. L’arte gli si presenta come l’insegnamento del bene mercé gli allettamenti e le attrattive del bello. Mazzini è amante della patria, ma resta assai lontano da quel patriottismo pel patriottismo per il quale oggi molti, repubblicani un giorno, riposano stanchi sugli allori dell’unità, carichi il petto di ciondoli regi. La patria per lui corrisponde, prosegue, ad una delle tante specie di quella divisione di lavoro così utile alle produzioni. Come nelle grandi fabbriche meccaniche vi sono diversi opifici, ciascuno dedicato a lavori diversi di una macchina stessa, così nel grande arsenale del mondo vi sono parecchie officine, le patrie, concorrenti ad elaborare gli elementi della macchina comune, l’umanità. Ma essa patria può anche sparire col tempo, appunto perché ci educa alla fratellanza cosmopolita.” Tant’è vero che, nei Doveri dell’Uomo, lo stesso Mazzini afferma la possibilità che “La patria sacra in oggi, sparirà forse un giorno, quando ogni uomo rifletterà nella propria coscienza la legge morale dell’Umanità”. Mazzini è fautore della libertà, della libertà la più ampia, la più sconfinata, ma, il liberalismo per il liberalismo non costituisce il suo ideale. “La libertà senza l’uguaglianza è una pianta sterile, uniforma vuota di sostanza”. Per Mazzini, scrive egli stesso nelle Opere, “La libertà non è un principio, ma quello stato in cui lo sviluppo di un principio è concesso ad un popolo. Non è il fine, ma il mezzo per raggiungerlo.” Qual’è dunque l’ideale degli ideali di Giuseppe Mazzini? “L’Umanità, lo sviluppo di tutte le facoltà fisiche e morali di quanti vivono, il miglioramento di tutti, la redenzione di quanti ha tipi manchevoli irregolari e deformi la natura, di quante ha vittime la società, di quanti ha martire la vita; la felicità massima e possibile della creatura, il benessere morale e materiale di tutti, dovere di procacciare il benessere sociale, la progressiva divinizzazione dell’uomo”. Così rispondeva, nella prima pagina di quel X Marzo, foglio unico del 1889 per ricordare il padre della patria scomparso diciassette anni prima, il giornalista Cajo Renzetti. “E per ascendere a questa città futura, egli accenna a due principi fondamentali, la nozione del dovere e la virtù del sacrificio; avvegnanché per lui la vita significa missione, compito di trasformare le cose a favore di tutti, dovere di procacciare il benessere sociale”. Da queste considerazioni emergono i concetti i concetti di famiglia, di legge, di stato, di proprietà, di popolo, quali, purtroppo, ancora oggi molto spesso non sono. “La famiglia è appunto la cellula embrionale di ogni umano consorzio. Essa col suo magistero di amore e a mezzo della prossimità, prepara ed educa i cittadini alla patria, come la patria li educa e li prepara all’umanità. La legge scritta non può essere che un riflesso, una fotografia, per così dire, della legge morale e naturale. Gli uomini nulla creano, ma scoprono; essi dunque debbono investigarla nel loro tempo ed attraverso la tradizione. Nessuno quindi può dettarla a capriccio, ed essa deve venire liberamente discussa e unanimemente accettata”. Lo stato, secondo il concetto mazziniano, non decapita i delinquenti, perché “il suo codice penale protegge la società, e ne educa gli individui; non legalizza la prostituzione, perché ripudia il lenocinio; non sparge le locuste della burocrazia, perché fa pochissime leggi e buone; non si circonda di baionette permanenti, perché tutti i suoi cittadini militano; non tiene gabellieri alle porte o alle dogane, perché non ha corte, né lista civile, né balli diplomatici, né livree di ministri, né galloni di generali: non compra coi fondi segreti , perché non ha spie, e non ha spie, perché tutto si può dire e stampare intorno ai problemi sociali, e l’interesse della sussistenza dello stato è comune; ivi i migliori per ingegno e virtù hanno dovere e diritto al raggiungimento dei pubblici negozi, e vengono eletti da tutti, rimanendo sindacabili, amovibili, responsabili.”
Lo stato mazziniano “rinuncia al carnefice, al gabelliere o al delatore, e, senza atteggiarsi a grande impresario della pubblica felicità, si riserva due sole ed uniche funzioni, la funzione esemplare e quella e la completiva. Dove manca l’esempio, lo stato promuove; dove difettano le facoltà dei privati in opere di pubblica utilità, esso concorre, disponendo, naturalmente, di mezzi maggiori a quelli de’ privati.
Questa specie di stato favoreggia, stimola, inizia a proteggere le tendenze e le spontaneità collettive. Esso può dirsi uno stato patriarcale che invece di perpetuare sé stesso ed allargare la propria sfera d’azione, tende mano mano ad innalzare il cittadino fino alla libertà, cancellando, ogni giorno che passa, una riga della propria legge. Tale stato, infine, a guisa del buon padre di famiglia, scende lieto nel sepolcro, vedendo adulti e felici i suoi figliuoli.” La proprietà, secondo quanto la intese Giuseppe Mazzini non è, e non può essere il risultato della frode, dell’usura della fortuna. La proprietà deve avere un ben “più giusto fondamento, più onesta origine, il lavoro”. Nei Doveri dell’Uomo, lo stesso Mazzini ha scritto chiaramente che la proprietà “è il segno, la rappresentazione della quantità di lavoro, col quale l’individuo ha trasformato sviluppato accresciuto le forze produttrici della natura”. Essa dunque è il frutto di un lavoro compiuto, e siccome in una società fondata sulla eguaglianza tutti hanno dovere e diritto al lavoro, ne consegue che “la proprietà non può, né deve agglomerarsi nelle mani di pochi e tiranneggiare il lavoro”. “La proprietà, mutabile e trasformabile in virtù della legge di progresso, deve continuamente scindersi e frantumarsi così che torni accessibile a tutti, e tutti possano, meritando col lavoro, appropriarsela”.
Forse non è l’utopia pura, forse è il modello cui uno stato dovrebbe tendere, ma sappiamo bene, a distanza di 150 anni, che non è andata precisamente così. Questo Stato, in cui viviamo l’oggi, non tende mano ad innalzare il cittadino fino alla libertà. Non favoreggia, non stimola, non protegge le tendenze e le spontaneità collettive dei suoi cittadini. Non educa e, soprattutto, non rieduca i cittadini con carceri da paese incivile e che rendono, per la loro inumanità, 15 volte maggiore il tesso dei suicidi al loro interno. E’ uno stato che spesso “sparge locuste burocratiche” per non semplificare la vita dei suoi cittadini e per compromettere la vita stessa democratica scegliendo, per legge, la via partitocratica della nomina al posto dell’elezione, dell’insindacabilità e dell’inamovibilità invece della responsabilità. Proprio per questo, forse, ricordare oggi il pensiero di Giuseppe Mazzini, di uno di quei padri fondatori dell’Italia, della tanto festeggiata Unità d’Italia, non serve ad un suo tripudio storico ma può essere utile per sottolinearne la rivoluzione necessaria e il lungo cammino che non è ancora stato sufficiente a renderlo, questo Stato, davvero democratico. D’altronde, lo ricorda nei suoi scritti* il genovese, “tutte le rivoluzioni sono nella loro essenza sociali , che l’ordinamento politico è la forma e non altro dei mutamenti, e che non si ha diritto di chiamare i milioni al sacrificio della quiete e della vita, se non proponendo loro uno scopo di perfezionamento collettivo, di miglioramento morale comune a tutti.”
Ciò che Giuseppe Mazzini scriveva nel 1862 allo scrittore socialista spagnolo Ferdinando Garrido sul manifesto, che esisteva fra i democratici ed i socialisti spagnoli, noi, senza tema di errore, possiamo oggi ripeterlo e ricordarlo a tutti i democratici a proposito delle cause che tengono disuniti le diverse gradazioni del nostro partito. La sola differenza sta in questo che nel 1862 in Spagna il manifesto era fra pochi socialisti e tutto il partito repubblicano, mentre ora in Italia il dissidio è grande, perché il “partito radicale” è diviso in tatti piccoli gruppi, per quanti il progresso delle scienze sociali, l’attuale regime costituzionale, la miseria invadente ed in proporzione di questa, il malcontento, ne hanno formati. “Ai repubblicani, ai socialisti, agli anarchici, ai “comunardi” e via dicendo a tutti i radicali in generale”, noi ripetiamo, come ripeteva in quel foglio M. Florenzano, le parole di Giuseppe Mazzini: “Havvi un terreno comune abbastanza vasto perché vi possiamo stare tutti uniti. Per noi non esiste rivoluzione, che sia puramente politica. Ogni rivoluzione deve essere sociale, nel senso che sia suo scopo la realizzazione di un progresso decisivo sulle condizioni morali, intellettuali ed economiche della Società. E la necessità di questo progresso, essendo più urgente per le classi operaie, ad esse anzitutto devono essere rivolti i benefici della Rivoluzione. E neppure può esserci una rivoluzione puramente Sociale. La quistione politica, cioè a dire l’organizzazione del potere, in un senso favorevole al progresso morale, intellettuale ed economico del popolo, è tale che rende impossibile l’antagonismo della causa del progresso, è una condizione necessaria alla Rivoluzione Sociale. E’ necessario all’operaio la sua dignità di cittadino, ed è garanzia per la conquista della liberà. (…) Riuniamoci dunque, compatti sotto un vessillo comune, che dica: Libertà per tutti, Progresso per tutti. Associazione di tutti per poter perseguire il fine unico che tutti ci proponiamo”.
Per ciò ci piace brindare a questo X Marzo, pure noi, colle parole che in suo onore pronunciò Giuseppe Garibaldi a Londra, nel 1864, in casa del grande agitatore russo Herzen: “Bravo Mazzini che, mentre tutta Italia taceva, parlava di Patria agli italiani; quest’Uomo che, mentre Italia dormiva, vegliava, pensava e agiva; bravo al mio Maestro, il Maestro di noi tutti.” D’altronde i Farisei, per dirla alla Kaiser, gridarono la croce al cospiratore; ma “quando dai due emisferi i Popoli avranno imparato a conoscerlo”, lo chiameranno col suo vero nome e “saluteranno in Giuseppe Mazzini l’apostolo, che ci ha mostrato il cammino in un nuovo mondo”.
La Basilicata avvelenata dalla malapolitica
di Maurizio Bolognetti
Proverò a raccontare uno dei volti di quella Peste Italiana che abbiamo descritto qualche mese fa, partendo da alcuni fatti. Proverò a descrivere un sistema di potere che nega legalità, Stato di diritto, democrazia, diritto alla conoscenza. Proverò a raccontare di controlli ambientali inesistenti, di dati manipolati, di villaggi edificati nell’alveo di piena di un fiume, di una politica incapace di gestire il territorio, ma capacissima di creare “emergenze” per meglio distruggere il diritto.
Il tutto nella consapevolezza che la partitocrazia crea corruzione e che la corruzione crea miseria, non solo economica.
L’avvelenamento coperto dal segreto istituzionale
Il Caso Fenice/Arpab
In Basilicata, dal 2000 è in funzione, nell’area industriale di San Nicola di Melfi, il più grande inceneritore d’Europa. L’inceneritore Fenice di proprietà del gruppo EDF. L’inceneritore tratta oltre 65000 tonnellate all’anno di rifiuti urbani ed industriali.
Il 3 marzo 2009, L’Agenzia regionale per l’ambiente della Basilicata(Arpab) comunica al Sindaco di Melfi “il superamento della concentrazione di soglia delle acque sotterranee”. Tradotto dal burocratichese: le analisi Arpab documentano la presenza nella falda acquifera del fiume Ofanto di agenti inquinanti cancerogeni. L’Arpab dal 2002, in base alla delibera n°304 della Giunta regionale, è tenuta a monitorare le matrici ambientali nell’area del vulture-melfese.
Il 12 marzo 2009, anche Fenice segnala al Sindaco di Melfi, all’Arpab, alla Regione e al Presidente della Provincia di Potenza “una contaminazione all’interno del perimetro del sito dell’impianto di termovalorizzazione”. E qui abbiamo il primo fatto piuttosto singolare: l’Arpab da comunicazione di un inquinamento in atto, il 3 marzo, mentre Fenice lo fa 9 giorni dopo. L’art. 242 del D.lgs 152/2006 prevede che “al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito, il responsabile dell’inquinamento mette in opera entro ventiquattro ore le misure necessarie di prevenzione e ne dà immediata comunicazione ai sensi e con le modalità di cui all’articolo 304, comma 2”. L’articolo 304, comma 2, del D.lgs 152/2006 prevede che la comunicazione all’Arpab, alla Regione, al Comune, alla Provincia e al Prefetto avvenga entro 24 ore dall’evento inquinante; il Prefetto, a sua volta, è tenuto a darne comunicazione al Ministero dell’Ambiente entro le 24 ore. Fenice invia la comunicazione alla Prefettura di Potenza solo in data 8 aprile 2009.
Il 14 marzo 2009, il Sindaco di Melfi emette un’ordinanza con la quale “vieta l’utilizzo delle acque sotterranee emungibili dai pozzi presenti all’interno del perimetro del sito dell’impianto di termovalorizzazione Fenice, nonché di quelli a valle del sito stesso.”
Trascorrono due mesi e, il 22 maggio 2009, viene emessa una nuova ordinanza, nella quale si legge: “Allo stato attuale Fenice Spa non ha posto in essere gli interventi di messa in sicurezza idonei a garantire la sicurezza dei luoghi ed un efficiente contenimento dello stato di inquinamento delle acque sotterranee.”
Dopo la lettura delle ordinanze iniziamo a porre i primi interrogativi. In primis chiediamo, senza ricevere risposta alcuna, come mai la comunicazione di Fenice giunga con nove giorni di ritardo rispetto alla comunicazione dell’Arpab.
Verifichiamo l’assoluta mancanza di informazioni e di trasparenza nella gestione della vicenda da parte di tutti gli enti interessati. Non un solo dato inerente al monitoraggio delle matrici ambientali acqua e terra è reso pubblico sui siti di Arpab, Fenice, Regione, Provincia e Comune. Finalmente, trascorsi tre mesi dalla comunicazione Arpab, il 17 giugno viene comunicato alla popolazione che l’inquinamento da mercurio sarebbe stato determinato da una “piccola perdita a livello di una vasca di raccolta.”
La notizia filtra dalle stanze di una blindatissima “Conferenza di servizio” convocata dal sindaco di Melfi e che vede la partecipazione di tutti i soggetti interessati(Regione, Provincia, Comune, Arpab, Fenice). Oltre alle cause che hanno determinato la presenza di mercurio, nulla trapela su cosa abbia provocato la presenza di altri pericolosi agenti inquinanti(alifati clorurati cancerogeni).
A questo punto chiediamo: da quanto tempo va avanti la “piccola” perdita? Non riceviamo risposta.
Ci armiamo di pazienza e chiediamo all’Arpab e alla Regione di fornirci i dati inerenti al monitoraggio ambientale del melfese. Avanziamo una prima richiesta in data 24 giugno 2009, citando la convezione di Aarhus del 25.08.1998, Direttiva 2003/4/CE del 28.01.2003, Legge n. 108/01, relativa alla ratifica da parte dell’Italia della Convenzione Aarhus, D.Lgs 195/2005, relativo al recepimento della Direttiva 2003/4/CE, Legge 241/90 e succ. mod. e int.
Praticamente in tempo reale, il direttore dell’Arpab ci risponde, prima a mezzo mail e poi a mezzo raccomandata, che non può fornirci i dati, perché “è pendente presso il Tribunale di Melfi, un procedimento inerente alle attività dell’inceneritore Fenice S.p.A.”
La motivazione non ci convince e a fine giugno reiteriamo la richiesta, citando una sentenza del Tar Abruzzo. Anche questa volta la risposta è picche, ma con un’aggiunta: l’Agenzia afferma che “sono proprio i dati del monitoraggio ad essere oggetto di indagine.”
Il Dipartimento Ambiente della Regione Basilicata, invece, risponde dopo 65 giorni, il 27 agosto 2009, invitandoci a recarci presso gli uffici del Dipartimento. Dopo due ore di colloquio, apprendiamo che presso il Dipartimento non sono disponibili le matrici ambientali acqua e terra dei rilievi effettuati dall’Arpab.
Iniziamo a provare la sgradevole sensazione di trovarci di fronte ad un muro di gomma e ad un gioco delle tre carte finalizzato a negare qualsiasi tipo di trasparenza e conoscenza.
Passano le settimane e i mesi e dell’indagine in corso nulla emerge.
Iniziamo a svolgere un’inchiesta sul territorio. A metà settembre, i nostri sospetti trovano una conferma: entriamo in possesso di alcuni documenti indirizzati dal distretto di Polizia Provinciale di Rionero in Vulture alla Procura della Repubblica di Melfi in data 27 marzo, 6 e 15 aprile. Dalla lettura dei documenti, apprendiamo che dai rilievi effettuati dalla stessa Fenice emerge un inquinamento in atto della falda acquifera già il 6 febbraio del 2008 e che la stessa agenzia per l’ambiente era a conoscenza dell’inquinamento in atto perlomeno dal 14 gennaio 2009. Dunque, 13 mesi prima delle comunicazioni pervenute al Sindaco di Melfi, Fenice e Arpab avevano riscontrato la presenza di sostanze anche cancerogene nelle acque “in concentrazioni molto superiori ai limiti fissati nell’Allegato N° 5 alla parte quarta tabella 2 del D.Lgs n° 152/2006”.
Il 21 settembre 2009, scriviamo una lettera aperta alla Procura della Repubblica di Melfi per chiedere come mai non si sia proceduto al sequestro dell’impianto, o quanto meno del Forno rotante, e per sapere a che punto si trovino le indagini.
Il 25 settembre 2009, in un servizio trasmesso dal Tgr Basilicata, giunge la risposta della Procura e dell’Arpab.
Il sostituto Procuratore Renato Arminio afferma che l’indagine è in corso da marzo 2009, ma “che sarebbe stato irresponsabile chiudere l’inceneritore”.
Nello stesso servizio, il coordinatore provinciale dell’Arpab, Bruno Bove, afferma:”Non potevamo divulgare quei monitoraggi. Già dal marzo del 2008 eravamo a conoscenza dei livelli preoccupanti del mercurio nella falda, ma non spettava al nostro Ente lanciare l’allarme.”
Sulla base delle dichiarazioni del dr. Bruno Bove, in data 26 settembre, presentiamo un esposto-denuncia indirizzato alla Procura della Repubblica di Potenza. Nello stesso ipotizziamo a carico di dirigenti dell’Arpab la violazione dell’art. 331 c.p.p.
Nemmeno dopo le sconcertati dichiarazioni del dott. Bruno Bove, la Regione Basilicata, il Presidente della Giunta Vito De Filippo, l’Assessore all’ambiente Vincenzo Santochirico fanno sentire la loro voce. Continua la consegna del silenzio e il muro di omertà. Ma non c’è da stupirsi: il direttore dell’Arpab viene nominato dal Consiglio regionale su indicazione della Giunta e il direttore dell’Arpab, Vincenzo Sigillito, è uomo vicino al Consigliere regionale del Pd Erminio Restaino.
A metà ottobre, e in concomitanza con il preannuncio di un sit-in Radicale, che ha visto la presenza di Elisabetta Zamparutti e Bruno Mellano, l’Agenzia rende noti i dati delle matrici ambientali acqua e terra del periodo 2008 – 2009, inviando i dati ai giornali, ma non mettendoli a disposizione dei cittadini sul sito dell’Agenzia. Il 16 ottobre, il Direttore dell’Arpab dichiara che è disponibile a diffondere i dati del monitoraggio a chiunque ne faccia richiesta, “a patto, naturalmente, che si tratti di persone titolate e mosse da validi motivi”.
Il concetto di trasparenza, evidentemente, non rientra nella sensibilità del Direttore dell’Agenzia, che si decide a diffondere i dati solo dopo che gli stessi erano stati diffusi dai Radicali, che rendono pubblica una denuncia a carico di Fenice dalla quale si evince che l’Arpab sapeva dell’inquinamento dal febbraio del 2008.
Pochi giorni dopo, il Direttore dell’Arpab, Sigillito, dichiara: “L’Arpab non era tenuta a informare le istituzioni entro tempi determinati, rispetto all’inquinamento provocato da Fenice. Se l’avessimo detto prima, a cosa sarebbe servito? A creare allarmismi?”.
Non contento, il Direttore dichiara ancora ad una testata amica “I Radicali fino a prova contraria non rappresentano un’istituzione per cui non sono tenuto a fornire loro i dati.”
In molte altre parti del mondo, il funzionario pubblico protagonista dei fatti descritti sarebbe stato quanto meno allontanato. Il Direttore dell’Arpab, Sigillito, invece è tuttora in carica, e nessuno, tranne i Radicali, gli ha chiesto di togliere il disturbo.
Ci sono voluti sei mesi per poter conoscere dati sul monitoraggio ambientale, che dovrebbero essere di pubblico dominio, e dai quali emergono concentrazioni di mercurio anche 140 volte superiori ai limiti previsti dalla legge.
Dal 2002, non un solo dato inerente alle matrici ambientali acqua e terra è stato reso pubblico dall’Arpa Basilicata. Dopo la nostra azione, ad inizio Novembre, sono stati postati sul sito dell’Agenzia i dati 2008-2009, che ormai non era più possibile tenere segreti.
Abbiamo chiesto al Direttore di pubblicare anche i dati precedenti; e qui c’è stato quello che potremmo definire il colpo di scena.
Il Direttore dell’Agenzia, Vincenzo Sigillito, il 4 novembre scorso, ha dichiarato, in sede di Commissione consiliare permanente Attività produttive, Territorio e Ambiente, che l’Arpab non ha nessun dato inerente al termodistruttore Fenice per il periodo 2002-2006.
Ma questo noi lo avevamo scoperto già all’inizio di settembre, quando ci eravamo recati presso gli uffici della Regione. Resta una domanda: perché il direttore ha finalmente reso pubblica questa imbarazzante verità?
L’audizione in sede di Commissione consiliare permanente Attività Produttive, Territorio e Ambiente è stata solo un momento della guerra tra Corleonesi e Palermitani che caratterizza la vita politica della Basilicata. Se la Regione, Il Consiglio regionale tutto e i membri della Commissione avessero davvero avuto a cuore la legalità e la trasparenza, il diritto dei cittadini lucani a conoscere per deliberare, si sarebbero mossi mesi o anni fa. La verità è che la Regione e il Dipartimento Ambiente sapevano che il monitoraggio era carente e lo sapevamo anche alcuni di coloro che oggi si stracciano le vesti, gridando allo scandalo, come l’ex Verde Francesco Mollica. Non è un caso che il confronto con il Direttore dell’Arpab non abbia avuto come oggetto la questione del diritto a conoscere per deliberare dei cittadini. Infatti, il verbale contenente le dichiarazioni del Direttore dell’Arpab non è stato pubblicato sul sito della Regione. L’audizione di Sigillito ha fatto emergere un’imbarazzante verità, ma se quella verità deve essere usata solo per affondare l’attuale direttore dell’Arpab, per attaccare un uomo in quota al Consigliere regionale Restaino, e non per modificare lo status quo, domani non cambierà nulla nella gestione dell’Agenzia regionale per l’ambiente, che è solo lo specchio fedele delle peste lucana.
Noi, intanto, ci chiediamo, e abbiamo buone ragioni per farlo, se i dati 2002-2006 non siano stati distrutti o occultati.
A tutt’oggi, resta senza risposta una lettera aperta che, il 27 luglio 2009, con Marco Cappato abbiamo inviato al Presidente della Regione, Vito De Filippo, e all’assessore all’Ambiente Vincenzo Santochirico. Nella missiva ricordavamo ai destinatari quanto la stessa Regione scriveva nel DGR n° 1008 del 15 marzo 1996:“bisogna garantire alla popolazione uno strumento che permetta tra l’altro una semplice interpretazione ecologica delle informazioni.”
Verrebbe da commentare: le vie dell’inferno sono sempre lastricate di buone intenzioni.
Rispetto alla realtà dell’agenzia regionale per l’ambiente, aggiungiamo qualche informazione utile.
L’Arpab paga, per l’affitto della sede di Matera, ventiduemila euro al mese al signor Castellano, a cui vanno aggiunti altri sessantamila euro all’anno per la manutenzione ordinaria, versati allo stesso Castellano. Totale 324000 euro all’anno, che per sei anni(la durata del contratto) fanno 1.944.000 euro. L’affitto per Matera è decisamente fuori mercato.
A Matera, Castellano significa Semataf, una società che gestisce un impianto per il trattamento di rifiuti pericolosi. Nell’oggetto sociale della Semataf, così come risultante dalla lettura della visura camerale storica, leggiamo quanto segue: “la società ha quale oggetto sociale la costruzione e gestione, in conto proprio e/o di terzi, di sistemi per la depurazione dei reflui industriali e per lo stoccaggio, il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti in genere, ivi inclusi i rifiuti industriali, ospedalieri, urbani e di ogni altra tipologia e provenienza.”
Va segnalato che i certificati di analisi del dipartimento provinciale dell’Arpab di Matera mancano della firma di un dottore biologo e di un dottore chimico. Per la precisione, i certificati redatti dall’ufficio suolo e rifiuti non hanno nessuna validazione da parte di un chimico e di un biologo; stessa cosa per l’ufficio risorse idriche ed alimenti, che svolge funzioni in materia sanitaria, analizzando acque ed alimenti destinati al consumo umano.
Percezioni e sinergie
Alla luce della copertura decennale delle informazioni sull’inquinamento ambientale suonerebbero addirittura comiche, se non si stesse parlando di cose serie, alcune dichiarazioni rilasciate dal Direttore dell’Arpab e dall’Amministratore delegato di Fenice.
Il 29 novembre 2008, il Direttore dell’Arpab, Vincenzo Sigillito, dichiara:“L’Arpa Basilicata considera il termovalorizzatore una risorsa estremamente positiva per il territorio lucano a maggior ragione in un momento in cui la regione è costretta a fronteggiare la problematica dello smaltimento rifiuti. Al tempo stesso, però, si riscontra, la percezione negativa che le realtà locali hanno dell’impianto di Melfi.” Gli fa eco l’amministratore delegato di Fenice, Patrick Lucciconi, il quale dichiara: “So bene che quando si ha a che fare con realtà simili a quella della Fenice è importante la comunicazione con le autorità locali, ma ancor più quella con i cittadini, perché quest’ultima fa la differenza tra la percezione positiva o negativa.” Caricato da Lucciconi, il direttore dell’Arpab si esalta e replica, affermando: “L’Arpa Basilicata ha offerto il proprio supporto tecnico-scientifico per avviare interventi informativi e di sensibilizzazione rivolti alle scuole sulle tematiche ambientali in generale e più in particolare sull’attività del termovalorizzatore di Melfi.” Ironia della sorte, le frasi citate vengono pronunciate nel corso di un incontro intitolato “La promozione di forme di partecipazione più trasparenti e sinergiche con le realtà locali in un’ottica di governance territoriale.”
I veleni di Tito: un’immensa discarica abusiva per rifiuti tossici garantita dall’omertà della Regione Basilicata.
A Tito, piccolo centro alle porte di Potenza, c’è uno dei due siti di Bonifica di interesse Nazionale della Basilicata; l’altro si trova nella Val Basento(materano). Come abbiamo avuto modo di verificare sul campo, a Tito è mancato sia l’interesse che la bonifica. O meglio, l’interesse c’è stato, ma è coinciso con le parole peculato, omissione di atti d’ufficio, mancata vigilanza, assenza di caratterizzazione, falso.
Si inizia a parlare della necessità di bonificare l’area industriale di Tito nel febbraio del 2001. Pochi mesi dopo, il D.M. 468/2001 istituisce “Il sito di bonifica di interesse nazionale di Tito”; ancora pochi mesi, e nel luglio del 2002, sempre con Decreto ministeriale, si stabilisce il perimetro del sito e parte la fase di caratterizzazione, cioè la fase in cui vengono accertate le effettive condizioni di inquinamento.
In merito alla bonifica del sito di Tito scalo, è bene precisare che la Regione Basilicata individuò nel 2005 il Consorzio per lo sviluppo industriale della Provincia(ASI) quale stazione appaltante per gli interventi di messa in sicurezza di emergenza e bonifica.
Noi iniziamo ad interessarci di Tito partendo dalla lettura di un verbale inerente alla conferenza di servizi decisoria tenutasi a Roma il 22 dicembre del 2008. Oggetto della Conferenza “Lo Stato di attuazione delle attività di caratterizzazione e di messa in sicurezza di emergenza sul sito di interesse nazionale.”
Dalla lettura del verbale dell’incontro, reso pubblico dall’Associazione Radicali Lucani, emergono gravi inadempienze e ritardi nell’opera di bonifica, e dati assai preoccupanti che fanno temere che l’inquinamento abbia prodotto danni che vanno ben oltre i perimetri stabiliti dalla burocrazia.
Leggiamo di monitoraggi incompleti, di dati discordanti, di rifiuti la cui destinazione risulta sconosciuta, di problematiche “non risolte”.
Il Ministero dell’Ambiente parla di “un contesto ambientale ancora caratterizzato da una pesante contaminazione da tricloroetilene in elevatissime concentrazioni tali da ipotizzare la presenza del prodotto libero in falda”. Lo stesso Ministero aggiunge che “a distanza di tre anni e mezzo le aziende e gli altri soggetti interessati hanno dimostrato limitato interesse e volontà nell’adoperarsi per conoscere e quindi, ove possibile, limitare la diffusione dell’inquinante che rappresenta un rilevante pericolo per la salute umana”.
Siamo partiti da qui, da questa frase, per effettuare un lungo viaggio in una terra devastata dai veleni. Abbiamo potuto documentare e verificare che, a otto anni dall’istituzione del “Sito di Bonifica di interesse nazionale di Tito scalo”, la bonifica è al di là da venire e i veleni stanno già da tempo inquinando acqua e terra ben al di là dei perimetri ministeriali.
Parlare dei veleni di Tito significa parlare dell’impresa Daramic, ma soprattutto delle 250000 tonnellate di fanghi industriali interrati nell’area ex-liquichimica nella cosiddetta “vasca fosfogessi”.
La Daramic
Nel 2005, la Daramic, una società che detiene il 65% del mercato mondiale per la produzione dei separatori per batterie automobilistiche, industriali ed applicazioni speciali, si autodenuncia, comunicando di aver causato “un pesante stato di contaminazione della falda e del terreno da tricloroetilene,tricloroetano, dicloroetilene, bromodiclorometano, cloroformio broformio, cloruro di vinile monomero, esaclorobutadene, tetracloroetilene.” Le sostanze citate sono tutte da considerarsi sostanze tossiche, cancerogene e persistenti. Al momento dell’autodenuncia, il sito di Tito già rientra nell’elenco dei siti d’interesse nazionale da bonificare.
Ma proprio in relazione all’inquinamento prodotto dalla Daramic, nel verbale ministeriale leggiamo notizie a dir poco inquietanti. Scrive il Ministero: “In corrispondenza del pozzo S13, nel mese di maggio 2008, è stata riscontrata un’elevata concentrazione di tricloetilene pari a 1590 milligrammi/litro non emersa nel mese precedente, tale circostanza potrebbe far presupporre ad uno sversamento puntuale”. Dunque nel 2008, a sette anni dall’istituzione del sito di bonifica, un agente inquinante, invece di diminuire, aumenta da un mese all’altro!
Ma non basta. Il Ministero segnala anche che alle acque alla trielina emunte è stato assegnato un codice CER(Codice europeo rifiuti) errato, ed aggiunge che l’impianto di trattamento/smaltimento di S. Nicola di Melfi, di proprietà del Consorzio industriale di Potenza(ASI), non è idoneo a ricevere i rifiuti costituiti dalle acque di falda emunte con codice CER(Codice Europeo Rifiuti) 19.13. Insomma, per il Ministero è stato possibile smaltire le acque inquinate presso l’impianto di proprietà del Consorzio industriale, solo grazie alla “errata” attribuzione del codice europeo rifiuti.
Da quanto scritto dal Ministero emerge un’ipotesi di peculato a carico dell’Asi Potenza. Peculato sui fondi destinati allo smaltimento di fanghi ed acque di falda contaminate, trattate e smaltite come rifiuti non pericolosi, con un risparmio sui fondi statali concessi per lo smaltimento dei rifiuti identificati dal cod. CER 19.13 e con conseguente arricchimento del Consorzio gestore.
LA VASCA FOSFOGESSI
Il grave inquinamento provocato dalla Daramic è assolutamente marginale rispetto ai veleni rivenuti nella zona industriale di Tito nel marzo del 2001 e di cui anche nel verbale ministeriale del dicembre 2008 non c’è traccia.
Marzo 2001: su mandato della Procura della Repubblica di Potenza, la Polizia Provinciale sequestra una discarica abusiva di 27000 mq.
L’area sottoposta a sequestro è di proprietà del Consorzio Asi di Potenza, che l’ ha acquistata dalla Liquichimica Meridionale Spa il 31 marzo del 1989.
La discarica è stata realizzata in totale violazione di quanto previsto dalla legge e senza alcuna autorizzazione. Il contenuto, è bene precisarlo, non ha nulla a che fare con le attività svolte dall’ ex-Liquichimica Meridionale.
Parlare dei fanghi industriali stoccati a Tito significa entrare in contatto diretto con chi dello smaltimento di rifiuti tossici ha fatto un affare.
Lo scenario che si presenta agli inquirenti è devastante: interrati in “trincee” e ricoperti da fosfogessi, contenitori in HPDE con all’interno decine di migliaia di tonnellate di fanghi industriali allo stato fluido.
Il dr. Mauro Sanna e il dr. Alessandro Iacucci, dopo aver analizzato i fanghi, affermano: “Questi fanghi incapsulati all’interno dei manti di HDPE per il loro elevato contenuto in metalli pesanti, visto lo stato di degrado e di cattiva gestione delle trincee, in completo stato di abbandono, possono essere causa di inquinamenti diffusi per la sottostante falda che affiora a breve profondità nel sottosuolo, una volta usciti dalle membrane stesse.”
Siamo nel 2001 e chi analizza le “trincee” già parla di cattivo stato di conservazione.
Da quel marzo del 2001, di fatto, sui fanghi di Tito scalo cala un silenzio tombale. Non se ne parla e non si procede a nessuna bonifica o anche credibile caratterizzazione.
Otto anni dopo siamo tornati ad occuparcene noi, con una video-inchiesta, che documenta che il carico di veleni contenuto nell’area è finito nella falda e, da lì, nel torrente Tora e nel Basento. Un’associazione a delinquere dai contorni sfumati ha stoccato nell’area ex-liquichimica oltre 250000 tonnellate di fanghi industriali tossico-nocivi.
Eppure nel 1996, in un documento del Dipartimento ambiente della Regione Basilicata leggiamo: “L’area è estesa per circa 27000 mq con un’altezza media di circa 4 mt. In seguito tra il 1987 e il 1990, il sito venne destinato per lo stoccaggio dei fanghi di supero, stabilizzati e disidratati provenienti dall’impianto di trattamento delle acque reflue della città di Potenza e dei due nuclei industriali di Potenza e Tito.” Il documento in oggetto contiene un falso clamoroso: di stabilizzato nell’area ex-Liquichimica c’è solo l’assenza di interventi di bonifica e il silenzio omertoso di tutti gli enti coinvolti ad iniziare dalla Regione Basilicata.
Chi ha stoccato i fanghi?
Chiarito e ribadito che solo i fosfogessi sono il prodotto dell’attività industriale dell’ ex-Liquichimica, va detto che anche i fosfogessi rappresentano un serio problema ambientale. Infatti, sull’annuario ISPRA(Istituto superiore per la protezione ambientale, ex Apat) 2002, in relazione ai fosfogessi, leggiamo quanto segue: “L’impatto radiologico dell’industria dei fertilizzanti è connesso con l’elevata concentrazione di uranio 238 nelle fosforiti (minerali di partenza costituiti da fosfati di calcio) e nei loro derivati.”
Occorre sottolineare che lo stoccaggio di fanghi è avvenuto sotto la gestione del Consorzio industriale di Potenza.
I fanghi presenti all’interno delle trincee sono da classificare rifiuti speciali, codice CER(CODICE EUROPEO RIFIUTI) 198004. Tali fanghi sono di origine industriale e non di origine urbana, come riportato nelle progettazioni del Consorzio. Tra i veleni contenuti nei fanghi troviamo: Arsenico, Mercurio, Cadmio, Cromo, Piombo, Selenio, Rame, Nichel, Zinco.
La gestione della discarica abusiva può essere distinta in due fasi: la prima va dal 1989 al 1996; la seconda dal 1997 al 2001. Fino al 1996, la quantità di fanghi industriali stimata nell’area era pari a circa 170000 tonnellate; successivamente, e fino alla data del sequestro, si arriva a 250000 tonnellate.
Il Consorzio Industriale di Potenza, con delibera n°263 del 12/11/1997, stipulò un contratto con la Carlo Gavazzi Idross S.p.a., con sede a Catanzaro, per la gestione e manutenzione della linea trattamento fanghi a servizio dell’impianto di depurazione del comune di Potenza. Successivamente, il 19 giugno del 1998, la Gavazzi sub-appaltò la gestione e manutenzione alla Bioeco S.R.L. di Potenza, che attualmente risulta sciolta. E’ agli atti che alcuni amministratori della Bioeco e della Gavazzi e alcuni rappresentanti dell’Asi sono stati destinatari di una richiesta di rinvio a giudizio.
E’ interessante notare che dai formulari risulta quale produttore dei fanghi la Bioeco srl di Potenza, quale trasportatore la Cosmer Srl di Napoli e quale smaltitore finale la SI.TE, con sede in Roma ed impianti in Aia Monaci a Potenza. In realtà, la Bioeco Srl non è il produttore iniziale, ma solo una ditta intervenuta nella raccolta e gestione di rifiuti provenienti da diverse attività industriali del Mezzogiorno. I rifiuti non sono mai arrivati agli impianti SI.TE srl in area Monaci(area che, è bene sottolinearlo, è destinata al solo smaltimento di rifiuti urbani, e solo per questi attrezzata ed autorizzata), ma sono stati collocati nella vasca fosfogessi.
Con ogni probabilità, questa vicenda si concluderà senza nessuna chiara attribuzione di responsabilità, perché nel frattempo i reati contestati a colletti bianchi ed affini stanno per cadere in prescrizione. Trattasi, comunque, di una vicenda emblematica, dalla quale emerge tutto un mondo che fa affari con il traffico di rifiuti tossici. Dall’inchiesta da noi condotta sullo smaltimento dei fanghi nella vasca fosfogessi sono emerse numerose notizie di reato. Non a caso, sulla vicenda abbiamo presentato due esposti alla Procura della Repubblica di Potenza.
Anche a Tito, come per la vicenda Fenice, abbiamo registrato l’assoluta mancanza di trasparenza per ciò che concerne la diffusione dei dati inerenti all’inquinamento delle matrici ambientali acqua e terra. Poche settimane fa, in una lettera inviata a tutti i capifamiglia di Tito, abbiamo scritto: “Il piombo, la trielina e tutte le sostanze tossiche presenti nel sottosuolo di Tito stanno al vostro habitat come la tenia partitocratica sta alla democrazia”.
Da tutta questa vicenda emergono tali e tante omissioni a carico di tutti gli enti coinvolti, che risulta difficile poterle elencare tutte.
Quel che resta è il fin troppo eloquente contenuto delle ordinanze emesse dal sindaco di Tito, che scandiscono, a partire dal 2005, il degrado della falda acquifera.
Nel Luglio del 2005 si fa divieto assoluto di utilizzare “per uso umano, per irrigazione e per altre attività l’acqua prelevata dai pozzi presenti all’esterno del perimetro dell’area industriale e compresi in una fascia di mt 100 dal limite dell’area Asi”. Il provvedimento, con ogni probabilità, viene emanato con grave ritardo.
Nell’aprile 2009, in una delibera votata dal Consiglio comunale, si legge:“Non è stato possibile revocare l’ordinanza di divieto di utilizzo ai fini potabili dell’acqua dei pozzi per una distanza di oltre 150 metri rispetto a quella perimetrata dal competente Ministero. Il permanere di detta situazione di grave inquinamento, rischia di compromettere, in maniera irreversibile, le falde acquifere con possibili gravi ripercussioni sulla salute pubblica.”
Il 21 settembre 2009, il Sindaco di Tito è costretto ad emettere una nuova ordinanza. Questa volta si fa “divieto assoluto di utilizzo delle acque del torrente Tora”. Il Tora è affluente del super inquinato fiume Basento.
E pensare che per mesi, tutti, ad iniziare dallo stesso sindaco, hanno tentato di minimizzare la gravità della situazione. Di certo, oggi, dopo la nostra video-inchiesta, a nessuno potrà venire in mente di risolvere il problema della vasca fosfogessi con una colata di cemento. Resta una domanda che ci inquieta: perché, in tutti questi anni, nessuno ha voluto e saputo risolvere il problema determinato dalla presenza di questa discarica abusiva?
Il 23 luglio, sulla vicenda Tito scalo, con Marco Cappato abbiamo indirizzato una missiva al Presidente della Regione, Vito De Filippo, e all’Assessore all’Ambiente Vincenzo Santochirico. Ad oggi siamo ancora in attesa di una risposta ufficiale. Sui veleni di Tito, Elisabetta Zamparutti ha presentato numerose interrogazioni parlamentari firmate da tutti i deputati Radicali.
Le responsabilità della mancata bonifica della vasca fosfogessi vanno equamente distribuite tra Regione, Asi, Provincia ed Arpab. Il tutto anche grazie ai silenzi dell’opposizione di regime.
Ad oggi, non una parola, né un intervento nelle sedi competenti è pervenuto dall’on. Salvatore Margiotta, che pure è vicepresidente della Commissione ambiente della Camera dei Deputati. A fargli ottima compagnia, l’intera pattuglia lucana presente alla Camera e al Senato.
Val Basento. Pattumiera d’Italia
Nella Val Basento troviamo il secondo sito di bonifica di interesse nazionale della Basilicata. Anche in Val Basento, come a Tito, è mancato sia l’interesse che la bonifica.
Il sito dell’area industriale della val Basento è stato individuato quale sito di interesse nazionale con l’art. 14 della legge 31 luglio 2002 n.179.
Successivamente, con il D.M. 26 febbraio 2003, è stato definito il perimetro del sito che comprende sei comuni del materano: Ferrandina, Pisticci, Grottole, Miglionico, Pomarico, Saladra.
Nell’area basentana del sito, a ridosso del bivio di Matera, si trova il nucleo industriale di Ferrandina. A ridosso di tale area industriale, dopo il ponte che collega Ferrandina alla s.s. 407 Basentana, si trova il sito industriale ex-Liquichimica di Ferrandina, che è stato sede, sin dai primi anni sessanta e sino alla fine degli anni settanta, di industrie per la produzione di clorosoda, cloruro di vinile monomero e Polivinile Cloruro(PVC).
Nel 2005, sul sito Ricerca Italiana leggiamo di una ricerca sulla situazione del sito di Bonifica della Val Basento. In quella ricerca, viene affermato che “le analisi chimiche hanno permesso di rilevare la presenza di inquinanti in quantità superiori a quelle consentite dalle disposizioni legislative vigenti: elementi chimici di elevata tossicità, come mercurio, piombo, cromo, zinco, sono presenti in concentrazioni da decine a centinaia di volte più elevate di quelle ritenute nocive per la salute umana. Purtroppo le anomalie chimiche finora rilevate non si limitano ai soli sedimenti ed alcuni elementi sono presenti nelle acque di falda in quantità superiori a quelle ammissibili. E’ pertanto opportuna una specifica e puntuale caratterizzazione chimica, geochimica e biologica dell’Area con lo scopo di localizzare le possibili sorgenti di inquinamento, di tracciare le distribuzioni degli elementi chimici e di individuare i percorsi e definire la velocità di migrazione degli inquinanti.”
Quattro anni dopo, nel giugno del 2009, il Presidente dell’Organizzazione lucana ambientalista, Pietro Dommarco, denuncia l’assenza di bonifica dalle pagine del mensile “Altra Economia”(L’informazione per agire). Scrive Dommarco: “Di fronte al problema dell’inquinamento delle falde acquifere e di un centinaio di altri siti contaminati da idrocarburi policiclici aromatici, composti cancerogeni, solfati e metalli pesanti tracciati da uno studio della stessa Regione Basilicata nell’aprile del 2006 la risposta istituzionale è stata lenta.” Nell’articolo si disegna uno scenario che ricalca quello di Tito Scalo.
Nel mese di ottobre del 2009, decidiamo di occuparci della Val Basento e lo facciamo partendo proprio da Ferrandina, dove si trova lo stabilimento(dismesso) gemello della Liquichimica di Tito scalo. A Ferrandina troviamo, e documentiamo, l’ennesima storia lucana fatta di veleni e cassa integrazione, di bonifiche fantasma e inquinamento delle falde acquifere.
Potrà sembrare incredibile, ma a Ferrandina, all’interno di un sito di bonifica non bonificato, è stato autorizzato l’insediamento di uno stabilimento chimico, che il Ministero dell’Ambiente ha inserito nell’elenco degli stabilimenti suscettibili di causare incidenti rilevanti.
Parliamo della Mythen Spa, che, in base a quanto leggiamo nell’oggetto sociale, tratta anche solventi usati. I solventi usati, in base a quello che leggiamo sul Catalogo Europeo dei Rifiuti, sono considerati rifiuti pericolosi. Nell’area Mythen, grazie alla preziosa collaborazione di chi si occupa di reati ambientali, documentiamo l’assenza di rete fognaria e il fatto che la Mythen scarica le sue acque industriali direttamente nel Basento. La condizione dei piezometri installati all’esterno dello stabilimento dal Dipartimento Ambiente e Territorio, e che dovrebbero servire a monitorare la falda acquifera, è, per usare un eufemismo, “precaria”.
Come se non bastasse, nei pressi dello stabilimento c’è la cosiddetta “area confinata”. Trattasi di un sito che non ha nulla da invidiare alla vasca fosfogessi di Tito, ma con un po’ di sorveglianza in più. L’area in oggetto, infatti, è recintata e illuminata. Per ammissione di un Consigliere comunale di Ferrandina, tale ing. Recchia, l’area in oggetto contiene rifiuti di origine industriale con abbondante presenza di Mercurio e altre sostanze altamente inquinanti.
La Mythen, nel rispondere alla nostra video-inchiesta, afferma di aver bonificato 200 metri quadri a sue spese; ma la Mythen, come è scritto sul sito della società, ha acquistato in quell’area 60000 mq di terreni. La stessa società afferma dalle pagine de “Il Quotidiano della Basilicata” che ci sono delle “criticità nel processo di produzione”.
Il termine criticità sembra essere ricorrente nelle risposte della Mythen. Infatti, in un articolo del luglio 2006, intitolato “Chiazze gialle nel Basento”, la Mythen, nel rispondere a chi accusa l’azienda di produrre inquinamento, oltre a negare qualsiasi attività inquinante, afferma che stanno “risolvendo delle criticità nel processo di produzione”.
Nel novembre del 2008, l’assessore all’ambiente della Regione Basilicata, Vincenzo Santochirico, dopo un incontro con il management della Mythen, parla di “criticità che non agevolano la produzione, come ad esempio la mancanza della rete fognante”.
Ma di situazioni strane, che meriterebbero di essere approfondite, nella Val Basento ce ne sono tante.
Il 15 ottobre del 2008, viene data una valutazione di impatto ambientale favorevole per la costruzione di una centrale per lo stoccaggio di gas naturale nell’area Grottole-Ferrandina. La valutazione viene, però, concessa con prescrizioni, e precisamente viene richiesto “di effettuare uno studio della situazione di possibile contaminazione dei suoli dell’area individuata, con particolare riferimento ad alcuni analiti quali Cromo, Cadmio, Vanadio, Mercurio, Rame e Piombo.”
La Val Basento è una bomba ecologica ed è anche una sorta di “terra di nessuno” per lo smaltimento illegale di rifiuti. Ma in Val Basento si registrano anche situazioni anomale per ciò che concerne lo smaltimento di 351mila tonnellate annue di rifiuti industriali. E’ il caso della Semataf, del gruppo Castellano, che in documenti ufficiali denuncia 218 tonnellate di fanghi di perforazione in entrata, ricevuti dall’Eni di Potenza e Foggia, mentre alla voce destinazione le 218 tonnellate crescono, diventando 228, con destinazione impianto di smaltimento Semataf di Guardia Perticara. Poi ci sarebbero i conti che non tornano in relazione alle attività svolte dalla società Tecnoparco di Pisticci(MT). Nel 2006, la Tecnoparco dichiara di aver ricevuto 43000 tonnellate di soluzioni acquose di scarto dalla Semataf ,che, invece, dichiara di averne spedite a Tecnoparco 1100. Anche in questo caso i conti non tornano.
Verrebbe da chiedere alla regione Basilicata quanto abbia incassato in questi anni dalle ecotasse versate da Fenice, Tecnoparco, Semataf e Criscuolo.
Concludendo, anche in Val Basento, come a Tito, bonifica e monitoraggi carenti, traffico illegale di rifiuti e conti che non tornano sullo smaltimento ufficiale di rifiuti industriali altamente tossici e pericolosi.
Il dottor Nicola Maria Pace, all’inizio degli anni novanta indagava proprio sul traffico di rifiuti in Basilicata: fu promosso e trasferito.
In un’intervista rilasciata il 18 ottobre alla Gazzetta del Mezzogiorno, il lucano dr. Pace afferma:…“diciamo che in Italia abbiamo una produzione di rifiuti che obiettivamente può essere smaltita con le normali strutture esistenti solo nella misura del 30 per cento. Al piccolo cabotaggio provvede la piccola manovalanza e alle situazioni più complesse quella organizzata, da qui le ecomafie, le cui centrali possono agire su scala internazionale, appoggiate anche da entità di livello superiore. I territori delle nostre realtà scarsamente presidiati e della cui fragilità abbiamo già detto, finiscono per diventare terreno fertile per vari tipi di illegalità. Non ultime quelle mascherate dall’offerta di posti di lavoro. Un copione che si ripete attraverso strutture che altrove sarebbero state rifiutate perché realizzate in violazione a tutte le norme in materia di gestione dei rifiuti.”
La Val D’Agri
La Basilicata Hub petrolifero
In Basilicata c’è il più grande giacimento petrolifero in Terraferma d’Europa. Solo il potenziale stimato del giacimento di idrocarburi della Val D’Agri, dove opera l’Eni, è di oltre 900 milioni di barili(in Val d’Agri si estrae l’80 per cento del petrolio italiano). Il valore complessivo dell’oro nero presente in Val D’Agri è di circa 20 miliardi di dollari. In Val d’Agri ci sono 55 pozzi in produzione. Insomma, scherzando, qualcuno anni fa ha rinominato la Lucania, Basilikuwait. Il problema è che la Val d’Agri non è un deserto e le estrazioni vengono effettuate in una zona ricca di sorgenti, boschi e instabile per frane. Sul sito blog energia, nel 2008, si leggono grida di giubilo per le concessioni rilasciate a Total, Shell ed Exxon, che sanciscono l’apertura del secondo polo di estrazione della provincia di Potenza, in località Tempa Rossa di Corleto Perticara. Quanto brevemente descritto, credo, renda chiaro il ruolo strategico che la Basilicata riveste per il nostro Paese. Di tutta questa ricchezza in Basilicata resta davvero poco, e soprattutto, il poco che resta viene speso davvero male. Parlare di petrolio in Basilicata significa parlare di monitoraggi carenti e incidenti collegati alle estrazioni petrolifere. E allora occorre dire che quanto ripetutamente denunciato da alcune organizzazioni ambientaliste, quali la Ola, è semplicemente incredibile. In Val d’Agri, da oltre dieci anni, è assente una rete di monitoraggio che rilevi in continuo tutti gli inquinanti (ivi compresi IPA, COV, Benzene, H2S Idrogeno Solforato), così come previsto dagli accordi Eni-Regione. L’idrogeno solforato è il sottoprodotto principale dell’opera di idro-desulfurizzazione del petrolio. A detta di autorevoli scienziati, un contatto quotidiano, anche con basse dosi di H2S, dell’ordine di grandezza delle normali immissioni nell’atmosfera di un centro di idro-desulfurizzazione, ha effetti di alta tossicità per la salute umana. Un documento molto istruttivo sul tema è stato prodotto dalla professoressa Maria Rita D’Arsogna(docente universitaria in California). Quello che c’è scritto nel documento in oggetto non è per niente confortante per gli abitanti della Val d’Agri, che vivono a poche decine di metri in linea d’aria dal Centro Oli di Viggiano. L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) consiglia di fissare il limite di rilascio di idrogeno solforato a 0,005 parti per milione (ppm); negli Stati Uniti, il Governo federale raccomanda un limite di 0,001 ppm, con limiti differenti fissati da Stato a Stato (ad esempio la California pone il limite dello 0,002 ppm, ed il Massachussetts dello 0,006). In Italia, il limite massimo di rilascio di idrogeno solforato, secondo quanto stabilito dal decreto ministeriale del 12 luglio 1990, recante le “Linee Guida per il contenimento delle emissioni degli impianti industriali e la fissazione dei valori minimi di emissione”, è di 5 ppm per l’industria non petrolifera e 30 ppm per quella petrolifera. E tutto questo nonostante sia ormai noto nella letteratura medica e scientifica che quest’ultimo valore è non solo seimila volte più alto dei valori raccomandati dall’OMS, già applicati negli USA, ma anche causa di danni irreversibili per la salute umana. Nel 2002 e nel 2005, in Basilicata ci sono stati due incidenti rilevanti che hanno riguardato il centro oli di Viggiano. Incidenti gravissimi, sui quali non sono stati mai forniti i dati relativi all’emissione dell’idrogeno solforato(Conoscere per deliberare?). In una ricerca curata dall’Università della Basilicata, pubblicata dall’International Journal Food Science and Technology, risulta che nel miele prodotto nella Val D’Agri si trovano alti tassi di benzeni ed alcoli. La rete di monitoraggio in Val D’Agri è carente, e per lungo tempo l’Eni ha rivestito il duplice ruolo di controllore e controllato. Come se non bastasse la questione collegata al rilevamento dell’Idrogeno solforato e di altri inquinanti, da alcune settimane è scoppiata una nuova polemica sul rilevamento del biossido d’azoto. Nella polemica, manco a dirlo, è coinvolta l’Arpa Basilicata. Premesso che nelle aree interessate dall’estrazione di idrocarburi la Regione Basilicata ha predisposto un affiancamento di Metapontum Agrobios all’Arpab, accade che, nel periodo compreso tra giugno e luglio 2009, i dati dei due enti sul Biossido d’Azoto entrino in contraddizione. Allarmanti, quelli presenti sul sito Metapontum Agrobios, che mostrano superamenti per 13 giorni consecutivi nel mese di giugno e 12 giornate off-limits nel mese di luglio(per un totale di 25 giornate ); tranquillizzanti i dati Arpab rilevati tra il 10 e il 31 luglio, che non fanno registrare alcun superamento della soglia massima di biossido d’azoto, che è di 200ugr(microgrammi)/mc. Per il biossido d’azoto, il Decreto Ministeriale 60/2002, che ha recepito con tre anni di ritardo la direttiva 1999/30/CE, concernente i valori limite di qualità dell’aria ambiente, fissa alcuni limiti massimi in relazione ad una media oraria(200 ugr/mc per 18 giorni in un anno). La Metapontum Agrobios registra in Val D’Agri 25 giornate di superamento della soglia d’attenzione in soli 2 mesi. Sul sito dell’Agenzia provinciale per la protezione dell’Ambiente della Provincia autonoma di Trento, in relazione al Biossido d’Azoto, leggiamo quanto segue: “il biossido d’azoto si può ritenere uno degli inquinanti atmosferici più pericolosi…il biossido d’azoto esercita il suo effetto tossico principalmente sugli occhi, sulle mucose e sui polmoni. In particolare, il gas è responsabile di specifiche patologie a carico dell’apparato respiratorio.” In Val D’Agri si registrano picchi di malattie tumorali ed aumento delle infezioni broncopolmonari. Di certo la malapolitica, che produce l’incapacità di governare un territorio, in Lucania fa più male anche dell’Idrogeno solforato.
Record di malattie Tumorali in Basilicata
La verde Basilicata, che fa registrare una bassissima densità abitativa, si accinge a detenere il record italiano per ciò che concerne l’incidenza delle malattie tumorali.
In uno studio redatto da alcuni medici dell’Istituto Superiore di Sanità, in collaborazione con l’Istituto Tumori di Milano, si afferma che in Basilicata l’incidenza delle malattie tumorali cresce come in nessun’altra parte d’Italia. Il tutto viene descritto in uno studio dal titolo “Current cancer profiles of the italian regions”. Intervistata dalla Gazzetta del Mezzogiorno, la dott.ssa Gabriella Cauzillo, dirigente dell’Ufficio regionale della Basilicata per le Politiche della prevenzione sanità pubblica, ha affermato: “L’incidenza dei tumori maligni in Basilicata è in aumento e lo confermo. Inoltre, la velocità di aumento dell’incidenza da noi è superiore.”
Il 28 ottobre, nel corso di una seduta del Consiglio Provinciale di Potenza, dedicata all’inquinamento delle falde acquifere e alla questione della gestione dei rifiuti, il dr. Giuseppe Morero ha affermato che il tasso di diffusione dei tumori nel Vulture sembra troppo alto. Nel corso del suo intervento, il dott. Morero ha sottolineato che l’incidenza delle malattie tumorali, nelle zone attorno all’inceneritore Fenice, dovrebbe almeno far riflettere.
Ma forse non è solo la riflessione ad essere mancata in questi anni. La Basilicata da mesi vive un’emergenza rifiuti che richiama alla memoria l’emergenza della confinante Campania. La piccola Basilicata avrebbe potuto essere il fiore all’occhiello dell’Italia in materia di riciclaggio dei rifiuti, ed invece solo l’8% della monnezza viene riciclato. Il 73% dei rifiuti lucani finisce in discarica e la restante parte viene incenerita. Da mesi assistiamo ad un Tour della monnezza con discariche al collasso, costi di raccolta che lievitano, strani incedi segnalati in alcune discariche. Discariche che, nella maggior parte dei casi, sono di vecchia concezione, cioè scarsamente impermeabilizzate sul fondo, senza un sistema di collettamento e recupero energetico biogas e prive di gran parte degli accorgimenti che impediscono la contaminazione con le matrici ambientali a contatto. Ci siamo più volte interrogati su questa “emergenza”, chiedendoci se essa sia solo figlia dell’incapacità di gestire un territorio, oppure voluta, indotta. Di certo è un’ “emergenza” sulla quale volteggiano già troppi avvoltoi; alcuni di questi sono già pronti a proporre l’apertura di nuovi inceneritori. Le cosche della partitocrazia lucana, più che occuparsi di realizzare un ciclo virtuoso nella raccolta dei rifiuti, si sono concentrate sulla creazione di società partecipate che hanno moltiplicato i costi di raccolta.
Dal Dissesto ideologico al dissesto idrogeologico
La vicenda Marinagri
Ci siamo occupati per lungo tempo, da quando Marco Cappato e Maurizio Turco sedevano tra i banchi del Parlamento Europeo, della vicenda Marinagri. E mi è venuto da pensare proprio alla vicenda Marinagri leggendo dei fatti di Messina. Il fiume di inchiostro che è stato versato dopo i fatti di Giampileri, riecheggia le stesse parole, le stesse riflessioni, che abbiamo letto e ascoltato dopo i fatti di Soverato e quelli di Sarno. In Italia il 48% del territorio è a rischio frana; in Italia si verifica uno smottamento ogni 45 minuti; in Italia dal 1918 al 2009 ci sono state 15000 frane gravi e oltre 5000 alluvioni. E ancora, dati che raccontano del rischio idrogeologico, noto, arcinoto, con 7 comuni italiani su dieci a rischio. E poi il documento “Ecosistema a rischio”, redatto dalla Protezione civile in collaborazione con Legambiente, dove troviamo la fotografia dei tanti disastri annunciati: 1700 comuni a rischio frana, 1285 comuni a rischio alluvione, 2596 comuni a rischio frana e alluvione. Messina, Sarno, Soverato, il Vajont, tutte tragedie attribuibili a quel dissesto idrogeologico, figlio del dissesto ideologico. Nel nostro libro bianco/giallo, “La peste italiana”, c’è un capitolo dedicato al dissesto idrogeologico. In quel capitolo ricordiamo che L’Agenzia Europea per l’Ambiente ha documentato un progressivo aumento delle catastrofi naturali in Italia. Oggi, il 38% delle vittime di alluvioni in Europa sono italiane. Ma veniamo alla Basilicata, che in base a quanto descritto dal rapporto redatto dalla Protezione Civile, vanta 56 comuni a rischio frana, 2 comuni a rischio alluvione e 65 comuni a rischio frana e alluvione, per un totale di 123 comuni a rischio. I comuni lucani, gioverà ricordarlo, sono 131. Eppure, con leggerezza, o meglio con scelta criminale, in Basilicata si è consentito di edificare un megavillaggio turistico nella fascia di pertinenza fluviale del fiume Agri, nell’area golenale di un fiume. Attualmente il villaggio è sottosequestro per disposizione dell’autorità giudiziaria. La città di Policoro, dove il villaggio è ubicato, è stata più volte soggetta ad inondazioni. Non vorremmo che tra dieci o cinquanta anni qualcuno debba scrivere, in relazione alla Venezia sul Mar Ionio: Tutti sapevano! Per quanto ci riguarda abbiamo ritenuto opportuno e doveroso diffidare l’Autorità di Bacino della Basilicata, attraverso un atto stragiudiziale, con il quale abbiamo invitato l’Adb ad avviare un procedimento amministrativo in via di autotutela per l’annullamento degli atti che hanno portato alla previsione dell’edificabilità sia pure con l’imposizione delle prescrizioni.
In un articolo apparso su Left qualche mese fa, Marco Cappato, occupandosi della vicenda di Tito scalo affermava: “La Basilicata è una delle regioni italiane dove è più chiaro come il dissesto idrogeologico sia il frutto avvelenato di quel dissesto ideologico prodotto da sessant’anni di regime fondato sulla corruzione e l’illegalità.”
Un mese dopo, sempre su Left, in un articolo dedicato alla vicenda Fenice, Elisabetta Zamparutti affermava: “il degrado del nostro territorio da tutti i punti di vista – ambientale e idrogeologico – è frutto del degrado della classe dirigente del Paese.”
Leonardo Sciascia, deputato Radicale e autore e dell’Affaire Moro, scrive in uno dei suoi racconti: “Il nome di uno scrittore, il titolo di un libro, possono a volte, e per alcuni, suonare come quello di una patria.”
In questi mesi, la mia patria, e non me ne vorrà spero, è stata una frase di Marco Pannella, che descrive alla perfezione le storie di veleni industriali e politici di cui ci siamo occupati: “La strage di legalità ha sempre per corollario nella storia, la strage di popoli.”
Come chiudere questo intervento? Visto il tema trattato vorrei farlo citando Roberto Saviano che in Gomorra scrive:“Ti sfogliano lentamente. Una foglia al giorno fin quando ti trovi nudo e solo a credere che stai combattendo con qualcosa che non esiste, che è un delirio del tuo cervello.”