“E’ ben giusto che chi gode i maggiori privilegi, sia sottomesso ai maggiori sacrifici”
Un calabrese dalla “costante fede italiana” che “amava aguzzare l’occhio nell’avvenire della Patria”
Per una riforma radicale: l’imposta progressiva per combattere la lussuria irrompente del capitale
di Giuseppe Candido e Filippo Curtosi
Quando la politica, anche quella calabrese, sembra perdere il suo senso d’Unità e pensa a secessioni e a partiti “meridionali” per competere con la La Lega del Nord, forse non è davvero tempo sprecato guardarci indietro, non per commemorare, ma per trarre, dai migliori, l’esempio.
In una piazza di Pizzo di Calabria, la bella epigrafe dettata da Ferdinando Martini fa ammenda dell’aspro giudizio di taluni contemporanei, e dice in sintesi della vita e delle gesta di Benedetto Musolino (Pizzo, 1808-1885), patriota e politico Senatore del Regno d’Italia nella XIII legislatura. A ricordarlo era Alfredo Gigliotti, direttore di una vecchia rivista di “Rassegna Calabrese”. Un mensile di vita, cultura, informazioni che, nel numero unico di novembre e dicembre del 1961, in occasione del centenario dell’Unità d’Italia, ne ripercorreva la vita e le gesta per consentire ai posteri di “correggere le sentenze ingiuste”. Perché, scriveva il Gigliotti, “E’ ben vero che i posteri sono quasi fatti apposta per correggere le sentenze ingiuste dei predecessori”. La famiglia Musolino occupa uno dei cospicui posti della storia del Risorgimento: lo zio e il Padre di Benedetto erano stati patrioti del novantanove ed avevano dovuto emigrare a causa della persecuzione delle bande del Cardinale Ruffo; lo zio Domenico e il figlio primogenito Saverio, erano stati poi uccisi durante la reazione del ’48; una sorella del giovane Benedetto fu madre di Giovanni Nicotera. Ma tutte le virtù familiari e patriottiche sembrarono riassumersi in Benedetto Musolino, nato l’8 febbraio 1809.
Giovanissimo, visitò l’Impero Ottomano; studente a Napoli fondò con Settembrini una “Giovine Italia”, una setta conosciuta come “Figlioli della Giovine Italia”, men fortunata di quella del Mazzini; cospiratore soffrì il carcere, combattente all’Angitola, nel ’49 promosso Colonnello di Stato Maggiore, ritornò dall’esilio di Francia per raggiungere Garibaldi in Sicilia. Fu quindi capo dell’insurrezione calabrese del 1860 e “deputato garibaldino al parlamento fino alla XIII Legislatura, ove portò alta e generosa l’affermazione della sua costante fede italiana”.
L’8 maggio del 1839 venne arrestato e assieme a lui presero la via del carcere anche il fratello Pasquale, Saverio Bianchi, Raffaele Anastasio e Luigi Settembrini. Liberato tre anni più tardi gli venne imposto di raggiungere il proprio paese dove viveva sotto stretta sorveglianza con l’obbligo di non allontanarsi dall’abitato anche di giorno e il divieto di rimanere fuori casa dopo il tramonto.
Un sorvegliato molto speciale che anche in quelle condizioni ebbe però il coraggio di cospirare ancora, assieme ad Eugenio De Riso e altri, per preparare i moti che poi sfociarono nella rivoluzione del 1848.
Musolino, scriveva il Gigliotti, “aveva il fervore della fede e delle idee, talvolta senza conoscere il freno, onde fu spesso ritenuto piuttosto uno spirito bizzarro che sapeva dire stravaganze brutali e verità”. Un uomo di pensiero e azione, un patriota che “Amava aguzzare l’occhio nell’avvenire della Patria e dimostrò averne il senso e la perspicacia negli anni avanzati, così come, nei tempi della giovinezza, aveva avuto l’ardore dell’azione”.
Per un decennio si batté alla Camera quasi solo per la preparazione nazionale, lanciando proposte, illustrando progetti che ammiriamo ancora oggi.
Radicale nell’animo. In un discorso pronunciato alla Camera il 30 giugno del 1861, Benedetto Musolino domandava se la Francia avesse mai pronunciato una sola parola relativa all’unità italiana. E rispondeva: “No. E dunque come fondate voi la vostra speranza nell’aiuto di questa alleata? Io dico – continuava Musolino – che l’alleanza della Francia non esiste più. Questa è un’altra illusione che ci facciamo: pretendiamo o fingiamo pretendere di penetrare a forza di fantasia là dove ci vogliono cannoni e baionette. (…) L’Italia diverrà grande alla sua volta con saviezza delle sue istituzioni, con la sua industria e con la sua forza: allora essa darà alla Francia la sua libertà”. Considerando, inoltre, l’infido atteggiamento francese nei confronti di Roma dimostrava quanto fossero illusi coloro che avevano sempre predicato Napoleone III il più sincero promotore ed amico dell’Unità italiana ed ammoniva: “Bisogna fare causa comune con la Germania, armarsi poderosamente, prendere da una parte Roma e dall’altra invadere il territorio francese incominciando con l’occupazione di Nizza e Savoia”.
Più oltre, nello stesso discorso, Musolino, pensando di aver dinnanzi i francesi, dichiarava la volontà italiana: “Non temete, l’Italia non aspirerà a conquiste, siamo contenti della nostra terra, del nostro cielo, della nostra eredità: in Italia non abbiamo razze diverse, diversa lingua, istinti diversi: una è la lingua, una è la razza. La base della nazionalità sta nella razza e nella lingua”. Ancora ignaro – su questo – quante sciagure, proprio quei nazionalismi basati su razza e identità linguistiche, avrebbero a breve causato.
Dura la critica al socialismo che si andava profilando. Si intese di economia e il 18 marzo del 1863, quando alla Camera si prendeva in esame il fabbisogno finanziario della Nazione, Benedetto Musolino, “che ad ogni problema apportava competenza dotta e sicura”, pone all’ordine del giorno dei suoi colleghi deputati “una riforma radicale” del sistema contributivo proponendo “l’imposta progressiva”. Nel corso della sua esposizione sollevava, senza assumere atteggiamenti demagogici, le sue accuse contro l’ingiustizia sociale della distribuzione della ricchezza e precisa i rapporti tra capitale e lavoro criticando aspramente le “malsane deviazioni dell’incipiente nostro socialismo”: “Il lavoro è mal ripartito, afferma Musolino; il capitale assorbe tutto. L’operaio lavora quando il capitalista lo vuol far lavorare e, quando questi non ci trova più la convenienza, lo getta sulla via”. E se ciò non bastasse afferma parole di straordinaria attualità anche oggi: “Signori, la pretesa civiltà moderna tende a sostituire il feudalesimo economico all’antico soppresso feudalesimo civile e politico. Tutt’oggi è capitale, e noi tendiamo ad una radicale trasformazione sociale. Se vogliamo costruire il nuovo Stato, la nuova società, su basi incrollabili, atteniamoci alla giustizia distributiva. Di fronte a questa lussuria sempre irrompente del capitale, io credo che per ora non c’è nessun altro rimedio se non l’imposta progressiva. Dacché il capitale è tanto favorito, è ben giusto che chi gode i maggiori privilegi, sia sottomesso ai maggiori sacrifici”. Personaggio polivalente e poliedrico dedicò “studi diligenti” ai problemi di politica nazionale ed internazionale. Capì che per avere e mantenere la sicurezza in Patria e nell’Europa delle nazioni di allora, era necessaria una forza armata nazionale di professionisti “allenati”. In occasione della discussione sul riordino e sull’armamento della Guardia Nazionale proposti da Garibaldi si espresse affermando che: “Bisogna che il cittadino acquisti le attitudini che all’occorrenza lo facciano essere soldato, e perché diventi soldato bisogna che sia istruito in tutte quelle pratiche che costituiscono l’arte militare. Perché si ottenga un’istruzione solida da avere, al bisogno, tanti soldati quanti sono i cittadini capaci di tenere un fucile, è d’uopo che ogni cittadino sia abituato alle pratiche della milizia”. A tale fine prevedeva periodiche “esercitazioni” che avrebbero conferito “un’idea precisa di come guerreggiare in campo” per cui, “in breve tratto di tempo si potrà vedere il nostro popolo armato ed esercitato, ed in caso di bisogno non avremo più dei corpi di truppa incomposta, ma dei soldati d’ordinanza”.
Attento ai problemi internazionali nel novembre del 1872, Musolino prende la parola alla Camera per esporre il suo pensiero netto e chiaro sui rapporti tra la Russia, la Prussia e l’Austria, i cui imperatori si erano incontrati in un convegno a Berlino nell’ottobre precedente: “La razza slavo moscovita si ritiene come predestinata al compimento di una grande missione, al rinnovamento dell’umanità accasciata sotto il peso della decrepitezza e della corruzione, mediante l’assorbimento delle altre razze, nazioni e credenze allo stesso centro politico e religioso. E’ un’utopia, escalamo taluni. Ed io rispondo che diventerà realtà se l’Europa non vi provvede in tempo. Se l’Europa le permetterà, non dico di fare, ma di sviluppare gli immensi elementi di potenza e di espansione che in sé racchiude, prima di mezzo secolo il vecchio continente di Europa e di Asia sarà invaso e dominato dalla razza slavo-moscovita (…). Per analoghi motivi la Prussia, avendo innalzata la bandiera della nazionalità, deve necessariamente osteggiare ogni ingrandimento della Russia e perché non può lasciarsi assorbire in Europa e perché non può permettere che quella estenda la sua dominazione nell’Asia minore. Il giorno che l’Europa permetterà alla Russia di sboccare e avere possessi nel Mediterraneo, sia avanzando dalla parte del Bosforo sia discendendo dall’Armenia in Siria e in Anatolia, l’Europa avrà segnato il decreto della sua servitù, giacché avrà concesso alla Russia il mezzo di come avere quei marinai che non può avere con le sue gelate contrade: marinai senza cui non potrà mai mettere in piedi delle grandi flotte che le sono indispensabili per girare le nazioni di occidente, onde neutralizzare la loro azione e il loro concorso quando sarà arrivato il momento di operare contro tutta l’Europa, invadendola da lato della Germania con enormi masse che potrà avere al più tardi fra due generazioni a causa dello sviluppo naturale e prodigioso della sua popolazione. E la Germania si trova nella stessa nostra condizione come quella che, essendo confinante con la Russia, sarebbe esposta elle prime invasioni dalle orde settentrionali, che per essere le prime, sarebbero accompagnate dal maggiore accanimento e seguite dalle più desolanti rovine.
I sapienti uomini politici del nuovo Impero Germanico non possono né debbono chiudere gli occhi di fronte all’avvenire che è riservato a tutte le Nazioni del vecchio continente dallo spirito di cosmopolitismo moscovita. E se non pensiamo fin da ora a mettere quest’ultimo nell’impotenza di continuare la sua espansione, essi avranno fabbricato sull’arena. Potranno ben costituire una Germania sapiente, splendida, gloriosa, ma sarà una Germania che non durerà più di cinquant’anni”.
Sorprendono ancora l’attualità e la veridicità dei presagi di quest’eroico garibaldino e dovrebbero destare ammirazione sincera. Crediamo giusto che quello spirito, quei suoi discorsi, quel suo ardore, quelle di idee e quelle azioni di rivoluzionario, patriota e politico di “fede italiana” fossero meditati anche oggi in questo cento cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, alla quale Musolino, assieme a tanti altri di Calabria, sacrificò la vita e ogni bene di fortuna. Sarebbe sicuramente un bell’esempio per vecchie e nuove generazioni.