26 dicembre 2106 – Visita alla Casa circondariale “Sergio Cosmai” di Cosenza.
Direttore (non presente al momento della visita): Benevento Filiberto. Delegazione del PRNTT: Ernesto Biondi, Roberto Bruno, Giuseppe Candido, Piera Ferraguto, Rocco Ruffa.
Alle 9:00 ci presentiamo alle porte del carcere di Cosenza. L’inizio della visita subisce, però, un iniziale contrattempo per il mancato ricevimento da parte del direttore dott. Benevento, delle revoche delle temporanee sospensioni delle autorizzazioni. Il direttore Benevento è in congedo e le guardie non sanno nulla della visita. La difficoltà viene superata grazie al fatto che abbiamo con noi tutte le mail e le autorizzazioni rilasciate dal DAP a Rita Bernardini e allo stesso direttore Benevento che, sia pur in congedo, si rende telefonicamente reperibile e, in pochi minuti, ci fa entrare nell’istituto trasformando – di fatto – quella che era una visita autorizzata dal DAP in una vera e propria visita ispettiva “a sorpresa”. Quelle visite che sono tra i compiti che il legislatore ha assegnato a parlamentari e ai consiglieri regionali.
Dopo aver salutato gli agenti, fatto loro gli auguri e averli ringraziati per la collaborazione, mentre entriamo verso il reparto Alta Sicurezza, il primo senso coinvolto è proprio l’olfatto.
La cucina, infatti, è il primo posto da cui passiamo. Il profumo che proviene da lì dentro e persino invitante e l’accoglienza dei detenuti che ci lavorano al suo interno è calorosa.
Mentre porgiamo loro gli auguri li ringraziamo, così come facciamo poi con tutti coloro che incontriamo, per il digiuno del 5 e 6 novembre. Da questo istituto hanno partecipato all’azione nonviolenta del Partito Radicale in 276 dei 278 presenti. Praticamente tutti.
All momento della visita sono presenti 281 detenuti (152 comuni, 129 Alta Sicurezza) oltre nove che, ci dicono, usufruiscono di permesso, a fronte di una capienza di 218 posti regolamentari (sovraffollamento del 129%).
Dei 281 detenuti, soltanto 175 (62%), hanno una sentenza definitiva. Gli altri 106 (38%) sono in attesa di giudizio definitivo. 48 di questi sono soltanto imputati.
Gli agenti effettivamente in servizio sono 151, tredici in meno rispetto alla pianta organica che ne prevede 164; situazione anche più grave quella degli educatori per i quali, su una pianta organica di 6, sulla carta ce ne sono 4, ma effettivamente in servizio sono solo in 3, il 50%.
Questi dati inizialmente ce li danno a voce (solo per le presenze) gli agenti mentre ci accompagnano, perché il questionario, a differenza di Vibo che ce lo aveva fatto trovare stampato e già compilato, qui non l’hanno neanche stampato al momento della visita. Glielo diamo noi e ci chiedono di potercelo inviare successivamente visto che il direttore è in congedo e l’ufficio matricola è chiuso. Il questionario, poi, arriva venerdì 30 dicembre mentre scriviamo il presente e stiamo a prepararci per la mattina di capodanno da passare con detenuti e detenenti alla casa circondariale di Crotone.
L’istituto Sergio Cosmai di Cosenza è composto da 4 padiglioni detentivi, in buono stato di conservazione e adeguati al DPR n°230/90. In prossimità dei padiglioni detentivi vi sono i locali della direzione con un ampio ingresso, gli Uffici per l’Esecuzione Penale Esterna, gli uffici della polizia penitenziaria, quelli degli educatori, l’area sanitaria e la caserma agenti con annessa mensa di servizio. Anche a Cosenza, come in tante altre carceri d’Italia, pesa l’assenza di un regolamento d’istituto. Inviato per l’approvazione, ma ancora il regolamento non c’è.
Dentro al carcere di Cosenza, a differenza di Vibo, si respira un clima più sereno ed è l’ozio – oltre al sovraffollamento di molte celle – il vero problema. Il pensiero non fa economia di ricordarci che è proprio con il lavoro che i detenuti possono reinserirsi nella società migliori di quando hanno varcato le soglie del carcere.
Anche le modalità della visita sono diverse: l’ora d’uscita – alle 14:30 circa – la decidiamo praticamente noi e – di fatto – possiamo parlare coi detenuti cella per cella, sedendoci e prendendo con loro un bel caffè come solo in carcere sanno fa’, e anche ai passeggi c’è molta più tranquillità anche negli stessi detenuti che ci espongono problemi. Poche ore fuori dalle celle (solo 4 per l’alta sicurezza), poco (o niente) lavoro, ritardi nelle risposte del tribunale di sorveglianza.
All’interno del carcere, i lavoratori (per come ci riferisce l’ispettore che ci accompagna) son davvero pochi (47): non ci sono lavorazioni ma solamente lavori relativi ai posti di servizio dell’istituto; in pratica, a turnazione trimestrale, su una ventina di posti, lavorano circa una cinquantina di 277 detenuti. Altri 4 lavorano alle dipendenze di un datore di lavoro esterno al carcere. Tutti gli altri oziano dalla mattina alla sera.
Nel reparto di Alta Sicurezza incontriamo i detenuti che ritornano dall’attività fisica che, non potendo utilizzare la fornitissima ma inutile palestra per mancanza dell’istruttore, svolgono prevalentemente a corpo libero correndo. I detenuti sono distribuiti su tre piani; il corridoio sul quale affacciano tutte le celle di ogni piano è, in realtà, un grande salone che – grazie al direttore – viene utilizzato anche come ‘passeggio’ quando all’aperto la pioggia (o il troppo sole d’estate) non consente di uscire.
Le celle, tolti i servizi igienici (dotati di lavabo e area separata con WC, doccia e – alcune – con bidè), sono di forma quadrata e di dimensioni 5 metri per 5 metri. Di fatto – come evidenziato dalla tabella – al netto del bagno e della superficie occupata dalle brande (come indica di fare per il calcolo dei tre metri quadri la recente sentenza della Corte di Cassazione), gli spazi vitali minimi si riducono assai e l’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo risulta violato.
Le criticità infrastrutturali delle celle, però, non si esauriscono con le carenze di spazio vitale; la luce naturale è davvero poca (anche alle 11 erano con le luci accese nonostante la giornata soleggiata); ai due finestroni, infatti, alle sbarre si aggiunge una fitta rete metallica che ostacola la vista e riduce notevolmente il passaggio della luce. Altri detenuti lamentano il fatto che, di notte, le porte blindate delle celle vengono chiuse “obbligatoriamente” (ad eccezione della cella di un detenuto il cui “blindo” non viene serrato su indicazione del personale medico, soffrendo egli di problemi psichiatrici). E ci riferiscono di considerare vessatorio questo trattamento temendo di restare inascoltati qualora, di notte, sopraggiungesse un malore a qualcuno degli occupanti.
Nota positiva è data dalla presenza, all’interno di ogni cella, oltre che del bagno con doccia e bidè, di un decodificatore che amplia la scelta di canali televisivi e consente ai detenuti – in assenza di altra attività rieducativa – di trascorrere le troppe ore di permanenze in cella meno amenamente (ma con la TV che ci ritroviamo in Italia non è certo questa una consolazione). Ciò è stato possibile grazie alla donazione del Vescovo di Cosenza.
Nel carcere di Cosenza, dotato di 6 aule scolastiche, una palestra (inutilizzabile però per mancanza di istruttore), una biblioteca e un campo sportivo, si svolgono attività scolastiche di scuola primaria, secondaria di I grado, e secondaria di II grado – I.P. Alberghiero. Queste attività, nell’anno scolastico 2015/16, ha riguardato però solo 78 detenuti.
Dei 281 detenuti, ben 87 (48 comuni; 49 a.s.) sono detenuti provenienti da fuori la regione, 47 sono stranieri (ma non è presente il mediatore culturale), tre sono tossico dipendenti in terapia con metadone e 71 detenuti non effettuano regolarmente colloqui con le famiglie.
La visita prosegue nell’Alta sicurezza su i tre piani, e non mancano altre segnalazioni preoccupanti in merito al trattamento riservato ai detenuti dalla Magistratura di Sorveglianza: ad esempio, il sig. Giancarlo, secondo i suoi calcoli, oggi si dovrebbe trovare in libertà. Purtroppo, a suo giudizio, questo diritto gli sarebbe stato negato a causa di un richiamo disciplinare che ha aumentato la sua pena detentiva di 45 giorni. Giancarlo, però, ci spiega che non meritava quel rapporto: si trovava in infermeria nel carcere di Vibo Valentia, quando, a causa di uno sciopero del vitto, a tutti i detenuti della sua sezione veniva comminata la stesso provvedimento disciplinare: come poteva, però, egli essere destinatario di quella misura – ci domanda – se durante l’intero svolgimento si trovava in infermeria? Ovviamente, non siamo in grado di rispondergli e siamo costretti ad annotarci l’appunto per farne una segnalazione a Rita.
Sul fronte della Magistratura di sorveglianza, la situazione non è delle migliori: i magistrati di sorveglianza (a detta dei detenuti) non assolvono sempre al loro obbligo di far visita ai detenuti nelle celle, limitandosi il più delle volte ad incontrarli nelle stanze dell’istituto a questo dedicate: il sig. Mario che negli ultimi 7 anni è stato detenuto nel carcere a Bari, a Vibo Valentia, a Roma “Rebibbia” e a Napoli “Secondigliano”, ci spiega che “un magistrato che gira tra le celle non lo (ha) mai visto”.
Trattamento inumano e degradante non può voler dire solo carenza di spazio; significa anche carenza di personale, di agenti, comandanti, personale amministrativo ed educatori: ade esempio, c’è la palestra attrezzata ma manca l’istruttore che consenta ai detenuti di utilizzarla; c’è un’area verde per i colloqui con i familiari ma mancano gli agenti per consentirne l’uso.
C’è una bella serra che potrebbe dar lavoro, ma mancano i soldi per pagare i detenuti che eventualmente vi lavorerebbero.
Manca pure lo Stato di diritto se consideriamo che neanche l’Ordinamento Penitenziario può dirsi pienamente applicato visto che esso agli articoli 15 e 28 elevano l’agevolazione dei rapporti familiari a elemento positivo del trattamento rieducativo (anche secondo quanto disposto dell’art. 61 del regolamento di esecuzione – adottato con DPR n. 230/2000 – rubricato “Rapporti con la famiglia e progressione nel trattamento”).
La carenza di attività lavorative – assieme all’eccesso di detenuti in attesa di giudizio e la mancanza di pene alternative alla detenzione – sono sicuramente i problemi più seri. Anche se sulla carta risultano esserci una scuola primaria (18 iscritti A.S.15/16), una secondaria di I grado (25 iscritti) e un istituto alberghiero (35 iscritti), ma nell’Alta sicurezza ci spiegano i detenuti che – di fatto – c’è solo la scuola media: non solo non ci sono istituti superiori, ma anche la scuola elementare manca e chi come il sig. Luca (nome di fantasia) vorrebbe imparar a leggere, scrivere e far di conto deve rassegnarsi.
Vogliamo parlare dell’ascensore rotto che costringe detenuti e detenenti a fare continuativamente 3 piani di scale a piedi? Soprassediamo.
Poi, ci sono i casi in cui la “regola” diventa discrezionalità: due detenuti ci spiegano che il Tribunale di Sorveglianza di Foggia che aveva emesso un parere positivo allo scomputo parziale di pena (un mese per ogni anno) in virtù dei 5 anni trascorsi in “condizioni disumane e degradanti” (ex. sentenza Torreggiani). Ebbene, stante avessero vissuto nello stesso periodo nello stesso carcere – quello di Foggia -, per la magistratura di sorveglianza calabrese a loro non spetta alcuna riduzione di pena!
Anche nella Media sicurezza le problematiche sono simili: niente celle aperte, poco spazio vitale, poche attività rieducative. Poco o niente lavoro.
E pure il dott. Pierpaolo Greco, medico di guardia presso la struttura carceraria che ha servizio medico H24, quando lo incontriamo nell’infermiera, ci spiega che: “Il problema non è la carenza di comodità, di spazi, ma è soprattuto il fatto che non viene fornita ai detenuti un’alternativa nell’offrire più lavoro e più attività rieducative”.
Un caso che ci ha particolarmente colpito dal punto di vista umano è quello di un uomo che ha vissuto ininterrottamente in Italia per trent’anni. Vederci lo ha rallegrato e ci ha molto ringraziato per avergli fatto visita. Si tratta del sig. Karib; persona pericolosissima perché colpevole (Udite, udite!) del “reato di clandestinità”. Egli – con moglie e figli in Marocco – per varie vicissitudini si è trovato nell’impossibilità di rinnovare il permesso di soggiorno e nel 2014 è stato rispedito nel suo paese d’origine. Ma dopo decenni trascorsi a Treviso era lì che voleva tornare avendo ininterrottamente lavorato in maniera onesta ed è così che ha violato la legge introducendosi in Italia clandestinamente. Ma la domanda resta: il carcere è il luogo dove mettere questa gente?
Viva Karib, che sconta la sua pena in modo dignitoso e spera di uscire presto dal carcere per poter lavorare e sostenere la sua famiglia; “viva Marco Pannella” come ci dicono salutandoci a gran voce dal passeggio i detenuti non italiani dell’istituto dopo aver parlato con noi. Al terzo piano, infine, prima di chiudere il giro, incontriamo Massimo B. e Antonio I. che ci dicono di esser nostri compagni per il 2017; di aver fatto, cioè, il versamento per iscriversi al Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito.
Mentre usciamo raccogliamo una riflessione dell’ispettore che ci accompagna e che – candidamente – ci spiega come un organico di Polizia Penitenziaria ridotto al lumicino si trovi a lavorare “tra l’incudine e martello” dovendo, cioè, “da un lato, garantire la sicurezza e, dall’altro, favorire condizioni di detenzione meno disumane possibili”. Poi aggiunge: “qui siamo tutti in burnout”. Detenuti e detenenti, è l’intera comunità penitenziaria ad esser sofferente.