Rita Bernardini, in sciopero della fame dal 4 marzo per chiedere allo Stato e al Governo di dare ascolto al messaggio di Napolitano e discutere un provvedimento di amnistia e indulto anche mirato ai reati legati alle droghe leggere, ha iniziato la sua quarta disobbedienza civile “specifica” per la cannabis terapeutica e ha piantato, sul suo balcone romano, ben 50 piantine di marijuana (anche se nessuno ne parla) con la finalità, dichiarata, di cederle ai malati che ne hanno diritto. Ma è davvero lungo l’elenco delle disobbedienze di Rita e la sua fedina penale altrettanto nutrita di condanne, assoluzioni e prescrizioni.
di Giuseppe Candido

So bene che è antipatico darsi ragione da soli. Come è altrettanto inopportuno auto citarsi, magari continuando a ripetersi. Lo scorso 20 ottobre, dalle pagine del Garantista che meritoriamente da’ ampio spazio alle lotte dei Radicali, a proposito dell’iniziativa del giornale di aprire il dibattito sulla legalizzazione delle droghe leggere, scrivevo delle ultra trentennali lotte fatte da Marco Pannella e dai Radicali ricordando come, a questa convinzione, stessero ora arrivando numerosi e importati riconoscimenti sia da parte di organismi internazionali come possono ritenersi le parole pubblicate nel rapporto sulle droghe dall’ONU, sia da importanti quotidiani e persino da personalità della cultura come Roberto Saviano icona della lotta alla criminalità organizzata. Una lotta, quella dei Radicali, iniziata nel ’90 dopo l’approvazione della legge Iervolino-Vassalli e fatta di disobbedienze civili, di referendum, e ancora di disobbedienze.
Oggi, nel 2015, dopo l’esperienza del Colorado dove la legalizzazione della cannabis ha persino consentito di restituire svariati milioni di dollari di tasse ai cittadini senza incrementare i consumi, pare che qualcosa sul fronte antiproibizionista si muova anche in Italia. Personalmente sono anni che vado dicendo e scrivendo che la legalizzazione, almeno quella delle droghe leggere, consentirebbe di sottrarre enormi risorse dalle mani della ‘ndrangheta e che, riposte sul mercato legale, queste consentirebbero enormi entrate per lo Stato e libererebbero forze dell’Ordine e magistrati per la lotta ai crimini più gravi.

Lo scorso 26 febbraio persino la Direzione Nazionale Antimafia ha dato ragione ai Radicali inviando al Parlamento la propria relazione annuale nella quale, a pagina 355, c’è un intero paragrafo sulla diffusione delle droghe leggere e nella quale i magistrati dell’antimafia – le cui parole normalmente sono prese come oro colato – invitano il Parlamento a considerare interventi di “depenalizzazione”, anche se, per come scrivono, sarebbe più corretto parlare di legalizzazione.
Nella loro relazione i magistrati dell’antimafia dopo aver spiegato che il dato dei sequestri di cannabis e hashish “evidenzia un picco che appare altamente dimostrativo della sempre più capillare diffusione di questo stupefacente”, scrivono che ,“di fronte a numeri come quelli appena visti – e senza alcun pre-giudizio ideologico, proibizionista o anti-proibizionista che sia – si ha il dovere di evidenziare a chi di dovere, che, oggettivamente, e nonostante il massimo sforzo profuso dal sistema nel contrasto alla diffusione dei cannabinoidi, si deve registrare il totale fallimento dell’azione repressiva (rectius: degli effetti di quest’ultima sulla diffusione dello stupefacente in questione)”.
Sembrerebbero ma non sono parole di Pannella. Sono le parole di magistrati impegnati quotidianamente e strutturalmente alla lotta alle criminalità organizzate. E aggiungono: “Oggi, con le risorse attuali, non è né pensabile né auspicabile, non solo impegnare ulteriori mezzi ed uomini sul fronte anti-droga inteso in senso globale, (…) ma, neppure, tantomeno, è pensabile spostare risorse all’interno del medesimo fronte, vale a dire dal contrasto al traffico delle (letali) droghe “pesanti” al contrasto al traffico di droghe “leggere”. In tutta evidenza” – aggiungono i magistrati – “sarebbe un grottesco controsenso”. Poi, nella relazione si parla di droghe leggere come di “un fenomeno oramai endemico, capillare e sviluppato ovunque, non dissimile, quanto a radicamento e diffusione sociale, a quello del consumo di sostanze lecite (ma, il cui abuso può del pari essere nocivo) quali tabacco ed alcool”.
Infine la cruda realtà:
“Davanti a questo quadro, che evidenzia l’oggettiva inadeguatezza di ogni sforzo repressivo,” – spiegano chiaramente – “spetterà al legislatore valutare se, in un contesto di più ampio respiro (ipotizziamo, almeno, europeo, in quanto parliamo di un mercato oramai unitario anche nel settore degli stupefacenti) sia opportuna una depenalizzazione della materia, tenendo conto del fatto che, nel bilanciamento di contrapposti interessi, si dovranno tenere presenti, da una parte, le modalità e le misure concretamente (e non astrattamente) più idonee a garantire, …, il diritto alla salute dei cittadini (specie dei minori) e, dall’altra, le ricadute che la depenalizzazione avrebbe in termini di deflazione del carico giudiziario, di liberazione di risorse disponibili delle forze dell’ordine e magistratura per il contrasto di altri fenomeni criminali e, infine, di prosciugamento di un mercato che, almeno in parte, è di appannaggio di associazioni criminali agguerrite”.
Deflazione del carico giudiziario, liberazione di risorse. Parole che dovrebbero attirare l’attenzione del legislatore e dello stesso ministro della Giustizia.
Invece niente, di questo non si discute. Come si dice: non fa notizia. Nonostante la Giustizia nostrana sia allo sfascio, più volte condannata per l’irragionevole durata dei processi dall’Europa, nonostante lo stesso Stato sia sanzionato per le carceri inumane e degradanti, dove c’è gente che, tra l’altro, sconta pene per una legge, la Fini Giovanardi, dichiarata incostituzionale, e con la direzione nazionale antimafia che ora, dichiara l’impossibilità di fermarne la diffusione e chiede al Parlamento di valutare la depenalizzazione delle droghe leggere, ci si aspetterebbe quantomeno un minimo di dibattito, una discussione pubblica nell’agorà televisiva in cui si informano i cittadini e si formano opinioni. Invece niente. Zero. È silenzio anche sull’iniziativa del Senatore Benedetto Della Vedova, che dopo quella relazione della Direzione Nazionale Antimafia, si è fatto promotore di un gruppo di parlamentari (ad oggi hanno aderito 105) per scrivere un testo di legge bipartisan, e dispiace constatare che siano solo due i parlamentari calabresi (Nico Stumpo ed Enza Bruno Bossio) che hanno capito che legalizzare significa essere contro mafia e ‘ndrangheta, mentre col proibizionismo le si alimenta. Non si dice nulla nemmeno della proposta di legge per la cannabis terapeutica del M5S presentata il primo aprile con una conferenza stampa.
E dispiace constatare che, a un mese dalla relazione dell’antimafia, né la televisione pagata come servizio pubblico, né quella privata, né i grandi gruppi editoriali, sull’argomento hanno aperto il benché minimo dibattito. Se si esclude il Garantista, anche in Calabria riscontriamo il silenzio. Eppure gli italiani avrebbero il diritto di conoscere ciò che ora dice anche l’antimafia. Quello che invece il Paese non può più permettersi è la cancellazione totale delle opinioni e fare a meno della ragionevolezza dei Radicali.