Dalla Noce alla Palmaverde. La “fantastica amicizia” tra Roberto Roversi e Leonardo Sciascia al “tempo dei monti furenti”

 di Valter Vecellio

   La prima lettera è del 10 febbraio del 1953, spedita da Racalmuto, piccolo paese arroccato nel cuore della Sicilia, diretta a Bologna. E’ Leonardo Sciascia che scrive, al poeta-libraio antiquario bolognese Roberto Roversi. L’ultima lettera è di diciannove anni dopo: del 20 novembre 1972, di Roversi.

   Una corrispondenza corposa: 109, le lettere; sei, le cartoline postali; otto quelle illustrate, più un telegramma, da parte di Sciascia; 84 lettere, due cartoline postali, trenta cartoline, quelle inviate da Roversi.

   Antonio Motta, infaticabile e tenace animatore del Centro di Documentazione Leonardo Sciascia di San Marco in Lamis (ma anche direttore di una rivista semestrale, “Il Giannone”, un piccolo grande gioiello), ha raccolto con pazienza e amore questo carteggio, lo ha ordinato e arricchito con un accurato apparato di note. “Dalla Noce alla Palmaverde” (Pendragon, pagg.303, euro 22) è una lettura straordinaria e appassionante; fondamentale per la comprensione di due intellettuali che ancora oggi “segnano” e ci parlano.

Prima del libro curato da Antonio Motta
Prima del libro curato da Antonio Motta

   “La Noce” è la contrada a qualche chilometro da Racalmuto dove Sciascia ama ritirarsi, e dove scrive quasi tutti i suoi romanzi, quell’osservatorio, spiega in più di un’intervista, che lo aiuta a comprendere quello che si agita in Italia e nel mondo. E’ tra Racalmuto e Caltanissetta che Sciascia scrive e cura “Galleria”, la bella rivista di cultura che ha un respiro e una visione europea, curiosa di tutti i fermenti e capace di recepirli, coglierli molto prima che si manifestino ed “esplodano”; da Racalmuto, scrive Motta, “Sciascia muove i fili, intreccia relazioni, dialoga con gli autori, corregge le bozze, scrive le recensioni. E’ un lavoro lento e capillare…”.

   La Palmaverde è la mitica libreria antiquaria di Roversi a Bologna, dove non c’è bisogno di bussare, la porta è sempre spalancata, la nostra City Lights petroniana: il luogo dove perdersi e dove trovarsi, dove un comprensivo e mite Roversi ascolta, legge i manoscritti che gli vengono inviati, consiglia, annota, sempre disponibile e attento. Un Roversi che non è solo l’autore dei testi di alcune delle più belle canzoni di Lucio Dalla; è soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta animatore di straordinarie riviste come “Officina” e “Rendiconti”, attorno alle quali ruota il meglio della cultura italiana, da Pier Paolo Pasolini a Carlo Emilio Gadda, da Elio Vittorini per dirne solo di alcuni; e chi può si procuri “Dopo Campoformio”, “Registrazione di eventi”, “I diecimila cavalli”, o “L’Italia sepolta sotto la neve”, per cominciare.

   C’è un sottotitolo: “lettere di utopisti”. Sì, forse è la parola giusta,utopisti. L’utopia di persone che credono e coltivano amicizia disinteressata; che vivono impegnati nel loro tempo, “scommettono” e “investono” in quello che credono senza preoccupazione di guadagno e convenienza: persone che puntano su quello che a loro sembra giusto e “doveroso”, e lo fanno con generosità e insieme prudenza, senza chiedersi se sia “opportuno”(l’opportunismo di una meschina opportunità, beninteso; che esiste un’opportunità saggia, necessaria; utile da coltivare e perseguire); persone, insomma, buone, capaci di intendersi con poche parole, sguardi, cenni: “…La ringrazio sinceramente e dal profondo; e vorrei abbracciarla. Le dico che metto il mio incontro con lei fra le cose veramente buone e belle e rare della mia vita”, scrive Roversi in una delle prime lettere, quando i due ancora si danno del “lei” (4 maggio 1953). E Sciascia, il 30 giugno: “…L’aver incontrato te e Tobino ripagano, me sedentario, della fatica del viaggio; e in un certo senso, mi aiutano a vivere, qui dove vivo…”. 

   Sono le lettere che si scambiano persone che hanno stima una dell’altra; coltivano gli stessi interessi: buone letture, appassionate di arte, condividono la stessa aspirazione per una società di diversi che sanno di essere uguali; e si “raccontano”, spesso si confidano: leggere le loro lettere è come essere con Sciascia nella piccola Racalmuto, con Roversi in quella Bologna che non c’è più, assistere alle loro discussioni, alle loro scoperte, condividere i percorsi culturali; e sono i “piccoli” gesti come la cura nel confezionare e spedire pacchi con frutta martorana (Sciascia), o il “certosino” (Roversi) a rivelare molto: pensate! Allora le poste funzionavano, i pacchi arrivavano puntuali, e integro il loro contenuto. Scrive, per esempio Roversi il 17 novembre del 1960: “Carissimo, si ripete ogni anno puntualmente il miracolo ‘della cassetta’; che è già arrivata piena e ridente…”; e di rimando Sciascia il 28 dello stesso mese: “…Grazie, anche e soprattutto da parte delle mie figlie, per l’ottimo panspeziale: subito festeggiato, anche nel senso di aver avuto subito ‘fatta la festa’…”.

   Ci sono poi i reciproci suggerimenti di lettura, i giudizi, le segnalazioni. Il 30 giugno del 1953 Sciascia scrive a Roversi dopo un soggiorno a Lucca dove incontra Mario Tobino: “E’ un uomo che somiglia ai suoi libri. Stare un giorno con lui, è come leggere un libro suo scritto soltanto per noi…Conoscendolo, ho scoperto che non solo adora Stendhal, ma vive stendhaliane passioni. Vive in manicomio (Tobino era medico psichiatra, ndr), scende raramente a Lucca, preferisce correre a Viareggio nelle sue ore libere. Fuma violentemente, beve caffè. Il buon vino in osterie fuori porta; e la notte scrive. Ama le donne, ma non sposa. Ama viaggiare…). Oppure il fulmineo giudizio che Roversi dà di Luigi Bartolini: “…grande artista e scrittore di autentico seppur fragoroso talento; è giusto dire che è un uomo impossibile…”.

   Un carteggio prezioso che ci aiuta a comprendere la personalità dei due scrittori, il lo spessore e la consistenza del loro impegno, un metodico lavoro di bulino. Motta nella sua nota introduttiva sa ben descriverlo: “Sciascia…da questo piccolo paese (Racalmuto, ndr) muove i fili, intreccia relazioni, dialoga con gli autori, corregge le bozze, scrive le recensioni. E’ un lavoro artigianale lento ecapillare…”.

   Un carteggio importante perché ci aiuta a comprendere i due autori; ma anche (saccheggio dalle riflessioni introduttive di Motta) perché oltre che essere  “…un documento umano rilevante…si possono assumere come un punto di osservazione più ampio in cui la letteratura, la poesia e il romanzo giocano un ruolo di riscatto, di emancipazione, di rinascita dell’Italia…”. Scrittori radicali, nel senso etimologico del termine, di chi va alla radice (anche se entrambi, sia pure in modo diverso, hanno avuto frequentazioni con Marco Pannella). 

   C’è tutto Sciascia e tutto Roversi, in queste lettere: l’amore dell’uno per le edizioni ben rilegate di amati poeti spagnoli o scrittori siciliani; per le stampe, acqueforti e litografie; la crescente diffidenza che diventa ostilità silenziosa ma rigorosa dell’altro verso quell’editoria “ufficiale” che tratta libri e pubblicazioni come merce da bancone di super-mercato; e d’accordo che un editore anche lui deve pur far quadrare i conti, ma c’è pur modo e modo…

   E’ il mese di marzo del 1972 quando Roversi scrive all’amico: “…Il fatto è, mi sembra, che attualmente gli umori hanno sostituito i giudizi; e una sorta di genericume argomentativo ha sostituito il piacere e l’impegno delle analisi di fondo, stabilendo il trionfo ipotetico del pregiudizio…”. Non conosciamo la risposta di Sciascia, se risposta c’è stata. Ma possiamo ben immaginare e intuire che ne abbia condiviso l’analisi, quel senso di inquietudine che era anche di Roversi il cui ottimismo della volontà non lo induce a mollare, ma non gli impedisce di vedere; e si sta parlando di quasi cinquant’anni fa…figuriamoci oggi. Un oggi che è il tempo di fredde, distratte mail, di insipidi SMS, di banali tweet e insopportabili blog. Un tempo triste perché pochi sembrano avere il gusto della scrittura, e ricevere una lettera è un evento da segnare nel calendario. Come dicono i versi di un poeta molto amato da Roversi, René Char, nel 142esimo canto de “Feuillets d’Hypnos”: “…Le temps des monts enragés / et de l’amitié fantastique”. Che tempo sia di monti sempre più furenti non c’è dubbio; peccato siano sempre più rare le fantastiche amicizie come quelle di persone come Roversi e Sciascia… Per fortuna ci restano questi carteggi, curatori come Motta, editori come Pendragon.

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