La cella numero zero, la pillola di Padre Pio e il diritto alla #conoscenza

Giuseppe Candido (pubblicato su Cronache del Garantista domenica 22 febbraio 2015)

Cella numero zero. La chiamano così a Poggioreale, la casa circondariale di Napoli tristemente nota per il suo atavico sovraffollamento che, in passato, ha superato il 178% raggiungendo presenze di tremila detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 1.680 posti. Mura umide, ammuffite, luride di sangue. Finestre con le sbarre, finestre tenute sempre chiuse e, soprattuto, nessuna telecamera. Salvatore Esposito col suo documentari pubblicato dall’Internazionale – attraverso le testimonianze di numerosi ex detenuti del carcere partenopeo – ricostruisce una realtà agghiacciante, tragica e, allo stesso tempo, drammatica.

Il cortometraggio lungo poco più di cinque minuti, come sottolinea l’avviso agli utenti, “contiene immagini cruente”. La cella numero zero del carcere di Poggioreale è una stanza due metri per tre con “una finestra sempre chiusa”. Le testimonianze di ex detenuti sono diverse, ma sono montate in modo che le frasi ricostruiscano con fedeltà ciò che in questa cella pare avvenisse: “Se ti giri e ti guardi intorno trovi pareti sporche di sangue”. “Sangue di persone”, spiega la testimonianza, “che si sono dovute pulire le mani sporche di sangue sul muro”. In quella cella, aggiunge un’altra delle testimonianze, “vengono picchiati tutti i detenuti, tutti quelli che commettono delle cose che a loro non stanno bene”. E ancora: “Si mettono tre o quattro poliziotti intorno a te e, con la scusa che ti fanno qualche domanda, ti riempono di botte. Ti scassano senza pietà. Sia che tu sia un boss sia che tu sia un ragazzo normale, a loro non interessa”. Un altro aggiunge: “mi hanno picchiato senza motivo, facendomi uscire sangue dappertutto”. E un altro ancora aggiunge il particolare sul diritto alla cura: “Mi dicevano: prendi quella pillola. La pillola di Padre Pio, la chiamavano, perché era una pillola che utilizzavano per qualsiasi patologia. Ho sentito dire a un infermiere: oggi con chi ci divertiamo. E ho pregato Dio di farmi trasferire e – aggiunge – non mi vergogno di dire che ho pianto davanti un assistente sociale e da quando sono uscito ho ancora bisogno di psicofarmaci per dormire”.

Cella numero zero. L'articolo pubblicato su Cronache del Garantista
Cella numero zero. L’articolo pubblicato su Cronache del Garantista

Non c’è dubbio che chi ha sbagliato debba pagare, ma la condanna è già la detenzione. Non si può aggiungere alla galera anche la tortura di carceri immonde e in cui possono accadere cose del genere. Non può essere che in un luogo in cui si viene affidati allo Stato, “se entra un bravo ragazzo, entra vivo ed esce morto”. Anche se questo bravo ragazzo fosse il peggior criminale, non è comunque tollerabile che, affidati nelle mani dello Stato, si venga costretti al suicidio di liberazione. E non serve indignarsi per gli indegni commenti di qualche cretino sulla pagina FB. È un discorso culturale e di rispetto della legalità: la pena non può essere inumana né violare la dignità della persona. Le immagini del documentario, invece, dopo esser state puntate sulle facce degli ex detenuti che, senza filtri né veline, raccontano a volto scoperto le torture subite, riprendono il viso e il corpo tumefatto e senza vita di Federico Perna, morto a 34 anni in quel carcere. La madre, disperata, difronte la tomba, dice che “non si può morire così a 34 anni”. E come dagli torto. Anche se, secondo l’autopsia, sarebbe invece morto per una “grave ischemia cardiaca acuta”.

Rita Bernardini e altri militanti dell'associazione radicale "Per la Grande Napoli", davanti al carcere di Poggioreale durante una manifestazione
Rita Bernardini e altri militanti dell’associazione radicale “Per la Grande Napoli”, davanti al carcere di Poggioreale durante una manifestazione

La cella zero era stata creata nel 1981, si legge nei testi di coda del documentario, nel 1981 e, “nel 2013 dopo le denunce dei detenuti il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha avviato un’indagine e, dopo pochi mesi, la direttrice del carcere Teresa Abate venne trasferita e alcuni agenti furono “allontanati dai reparti”. Ma tralasciando il compito di individuare i responsabili di questa vergognosa vicenda che, evidentemente, spetta alla magistratura, è naturale che, se in un carcere dove potevano stare solo 1.680 detenuti si è arrivati ad ospitarne tremila, non erano ( e non sono) soltanto i detenuti ad essere costretti a vivere in condizioni inumane e degradanti. In condizioni che spesso “ispirano” i suicidi di liberazione che non accennano a diminuire nelle patrie galere. In quelle condizioni inumane e degradanti, ci si trova anche chi lì vi lavora e, per questo, può assumere atteggiamenti deviati; atteggiamenti intollerabili per chi lavora per lo Stato e per lo Stato svolge un pubblico servizio. Ciò può avvenire proprio perché – anche loro – vivono condizioni di lavoro inumane e degradanti la dignità della persona. A chi dice che l’emergenza carceri è finita consiglio di andare a vedere che le file dei parenti dei detenuti davanti al carcere non sono finite. Come pure continuano le torture dei parenti che le file per vedere i propri cari devono farle. L’emergenza carceri non è finita e, come Radicali, continuiamo a mettere al centro della nostra iniziativa e della nostra azione politica gli obiettivi che, nel messaggio del Presidente emerito Napolitano inviato alle Camere l’8 ottobre 2013 nel pieno delle sue massime funzioni e rimasto inascoltato, erano indicati come obblighi giuridici per far rientrare l’Italia nella legalità costituzionale e sovranazionale. Marco Pannella, che venerdì 20 ha ricevuto la laurea honoris causa in Comunicazione, da mercoledì 11 di febbraio è in sciopero, per ora solo della fame, non per protesta ma per proporre che su quel messaggio il Parlamento discuta e perché i cittadini possano avere il diritto di conoscerlo attraverso dibattiti televisivi. I cittadini avrebbero il diritto di conoscere. Il diritto alla conoscenza, che oggi Pannella vuole promuovere all’ONU come diritto umano, è un diritto fondamentale. È il di conoscere per deliberare. Di einaudiana memoria. Di conoscere tutte le diverse proposte politiche, perché solo così si può lottare contro l’indifferenza cui siamo precipitati e si può sperare di continuare a vivere in una democrazia.

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